CORONA DELLA MORTE DI ANNIBALE CARO
Dall'introduzione di Lucia Fava, per gentile concessione dell'Autrice e dell'Editore.
“Giunta, o vicina è l’ora (umana vita
come te n’ voli), è l’ora giunta, ond’io
vi lasci, amici, e me ne torni a Dio;
ecco l’Angelo suo, ch’a lui m’invita.
Mia gran ventura e sua grazia infinita
da tal mi tragge affanno. E ‘n tanto oblio
vissi qui di me stesso. O Signor mio,
dunque teco sarà quest’alma unita?
In te risorge eterno e luminoso
il mio dì che tramonta oscuro e corto,
or che spoglia han di me le Parche irate.
Voi, quando sentirete: Il Caro è morto,
rivolgete in gioir del mio riposo
quanto avete d’amore e di pietate.”
Così Annibal Caro, letterato assai stimato nel Cinquecento, e oggi ricordato quasi solo come latinista, intravedeva la propria morte in uno dei sonetti che compongono le Rime. Sulla scia di questi versi, a morte avvenuta, gli veniva consacrata da un poeta che preferiva non rivelare la propria identità una corona di nove sonetti commemorativi, intrecciati in modo che l'ultimo verso di ciascuno divenisse il primo del sonetto successivo e il verso iniziale del primo fosse identico all'ultimo del nono sonetto. Come questa corona di sonetti sia divenuta poi il corpo principale di una edizione collettiva di madrigali, e ne abbia anche suggerito il titolo, è oggetto di questo studio. La Corona della morte dell'illustre Signore, il Sig. Comendator Anibal Caro uscì a Venezia per i tipi di Girolamo Scotto nel 1568, curata da Giulio Bonagiunta da San Ginesio e dedicata al nobile maceratese Giovanni Ferri. Oltre ai nove sonetti della corona, la raccolta musicale ne intona altri sei, anch'essi aventi per tema, naturalmente, la morte di Annibal Caro; di questi, quattro sono legati a due a due come proposte e risposte tra due poeti: il decimo è infatti di Giovan Battista Caro, e l'undicesimo è la Risposta in nome del Caro a M. Gio. Battista Caro di M. Battista Zuccarino da Feltre; il tredicesimo è di Girolamo Fenaruolo che lo indirizza Al clariss. Sig. D. Veniero, e il quattordicesimo è la Risposta del clariss. Veniero; il dodicesimo, del Cardinal Bobba, è a sé stante, e così l'ultimo di G. Battista Zuccarino da Feltre, costruito in forma di dialogo tra la Fama e le Muse. Ogni sonetto, a parte il dialogo finale, è intonato in un dittidi madrigali (uno per le quartine, l'altro per le terzine, con l'eccezione del quattordicesimo sonetto, dove il primo madrigale intona la prima quartina, e il secondo i versi successivi). L'organico prescelto è quello a cinque voci, mentre il brano conclusivo è per doppio coro. Questa raccolta costituisce un singolare punto di incontro tra vari personaggi di origine marchigiana: oltre al dedicatario, al curatore e al poeta a cui essa è intitolata, nonché al nipote di quest'ultimo, autore come vedremo di buona parte dei testi, figurano tra i musicisti tre autori marchigiani: Francesco Adriani, Eliseo Ghibellini e Cesare Schieti. Accanto al legame all'ambiente culturale marchigiano del Cinquecento sì rileva poi un altro aspetto di sicuro interesse: il fatto che si tratti di un rarissimo caso di florilegio musicale in morte. Nella lettera dedicatoria, datata 25 maggio 1568, il Bonagiunta esprime abbastanza chiaramente la genesi di questa raccolta madrigalistica: «... ho raccolto alquanti sonetti composti sopra la morte dell'eccellente Sig. Anibal Caro dal Sig. Giovan Battista suo amantissimo nipote, li quali avendo fatto vestire da eccellenti Compositori d'una Musica, che rende concento molto proprii alli concetti delle parole, ho voluto che vadano per il mondo con le altre opere musicali, che per mia industria sono state messe in luce...» Secondo le parole del Bonagiunta, quindi, l'idea prima di questa edizione collettiva è di origine poetica, mentre la musica si delinea come elemento di natura ornamentale, concepito a posteriori: la componente letteraria perciò determina il taglio stesso dell'edizione musicale, tanto più che ogni singolo testo poetico gode, fatto non comune in una pubblicazione di questo tipo, di una propria stampa autonoma rispetto a quella della musica nel libro-parte del canto, prima del madrigale che lo intona. Questa scelta editoriale conferisce ai testi poetici una importanza almeno equivalente a quella delle musiche. Se per gli ultimi sei sonetti gli autori sono indicati, la corona dei nove sonetti è invece dichiarata adespota («corona d'incerto»): ma con ogni probabilità l'autore è proprio Giovan Battista Caro, e ciò per una serie di ragioni che cerchiamo qui di chiarire. In primo luogo Bonagiunta nella lettera dedicatoria parla di «alquanti sonetti... composti dal Sig. Gio¬van Battista»: nell'edizione musicale solo un sonetto, il decimo, è dichiaratamente del nipote di Annibal Caro, e ciò contraddice l'uso del plurale; il lapsus di Bonagiunta rivela quindi l'identità di quell'«incerto» autore che per motivi non facili da immaginare voleva rimanere anonimo. Che si tratti verosimilmente di Giovan Battista Caro e non di altri è suggerito anche nell'ottavo sonetto della Corona, dove si allude al legame di sangue tra Annibale e Giovan Battista, meno forte tuttavia rispetto all'affetto e alla affinità di interessi letterari che legavano zio e nipote («... poi che a te m'unio amor più che natura...»). Altre conferme a questa ipotesi sono contenute nel primo sonetto, dove l'autore si dice «rampollo» di Annibale, e nel quinto, sesto, settimo e ottavo sonetto dove quest'ultimo è identificato con Dedalo, e l'autore con Icaro, rappresentando così un rapporto di pa-rentela che se nel mito è quello di padre e figlio, nella realtà era quello di zio e nipote. Significativa è la stessa identificazione con il personaggio di Icaro, nome che contiene il cognome di Giovan Bat-tista, e straordinaria l'analogia tra il quinto sonetto (terzo verso: «Caro Dedalo mio...») e quello di Giovan Battista Caro pubblicato nel Canzoniere dello zio, dove Annibale è di nuovo identificato con Dedalo (settimo verso: «Nuovo Dedalo mio...»). Si noti infine la continuità tra i nove sonetti adespoti e il decimo, il cui autore dichiarato è Giovan Battista: il ricorrere delle domande retoriche, il tono familiare ed il rivolgersi ad Annibale in seconda persona come ad uomo vivo portano a considerare i dieci sonetti come scritti da un'unica mano. Si leggano infatti i restanti cinque: a parte l'undicesimo, che adopera ancora la seconda persona ma che è rivolto non ad Annibale, ma al nipote, gli altri parlano del defunto in terza persona e con tono più distaccato e formale. Nella stesura dei testi Giovan Battista tenne sicuramente a modello lo stile dello zio: diverse sono infatti le analogie stilistiche tra i brani della Corona e diversi sonetti, soprattutto quelli «in morte» di personaggi illustri, presenti nelle Rime del Caro; bastino, a titolo di esempio, alcuni versi di questo sonetto per la morte di Giovanni Guidiccioni:
“Guidiccion, tu sei morto? tu che solo
vivendo, eri mia vita, e mio sostegno?
Tu, ch’al mio errante, e combattuto legno
fosti ad ogni tempesta il porto, e ‘l polo?”
O di quello per la morte di leronimo Soperchio:
“leronimo, sei morto? ahi morte, ahi vita,
ambe ingrate ugualmente, ed importune.
E come una di voi non m’è comune,
se m’avea seco Amor l’anima unita?”
O infine quello per la morte di Benedetto Varchi:
“Il Varchi, il Varchi è morto. E chi di vita
fu mai più degno? E più ne diede altrui?
E come io più vivrò, s’io vissi in lui?
Se con lui sempre ebb’io quest’alma unita?”
Lo stesso tono enfatico e ampolloso, ricco di domande retoriche, che notiamo nei sonetti musicati, è riconosciuto come proprio di buona parte della poesia cariana da uno dei maggiori studiosi del letterato civitanovese, Aulo Greco, che specie «nelle rime d'occasione, di encomio a vivi o defunti» vede i frutti artificiosi «del rimatore di mestiere», nei quali «gli elogi si distendono in una forma di discorso pacato ed uniforme, le iperboli vuote, le espressioni ormai consunte, i richiami eccessivi e fastidiosi alla mitologia, il tono retorico e volutamente enfatico, le apostrofi e le interrogazioni, il piacere scoperto di giocherellare con le rime, di adattare espressioni e voci attinte al linguaggio petrarchesco raggiungono il loro massimo sviluppo». Le analogie stilistiche tra i sonetti musicati e la poesia del Caro si spiegano agevolmente se sì considera che Giovan Battista era solito scrivere liriche d'occasione ed encomiastiche su invito dello zio e sotto suo nome, e ne sapeva quindi ben emulare lo stile. Anche a livello delle scelte formali sono evidenti delle somiglianze con le opere del Caro. Una «corona» di nove sonetti in tutto e per tutto analoga a quella che prendiamo qui in esame era stata pubblicata diversi anni prima all'interno della famosa Apologia, prosimetro che il Caro aveva compilato in occasione della polemica contro Ludovico Castelvetro. Straordinaria in particolare è la somiglianza, a livello di costruzione sintattica, tra il quarto sonetto della Corona musicata (cfr. il testo a p. XVII) e il quinto sonetto della Corona di Annibal Caro:
“Lingua ria, pensier fello, oprar maligno,
foll’ira, amor mal finto, odio coverto;
biasmar altrui, quando il tuo fallo è certo,
e dar per gemma un vetro, anzi un macigno;
far di lupo e d’arpia l’agnello e ‘I cigno,
fuggire e saettar; lodar aperto,
chiuso mal dir; gran vanti e picciol merto;
e pronto in mano il ferro, in bocca il ghigno.
Dispregiar quei che sono e quei che foro
d’onor più degni, e solo a te monile
far di quanto ha ‘1 gran Febo ampio tesoro.
Furori e frenesie, d’aschio e di bile
atra; e sete di sangue, e fame d’oro:
queste son le tue doti, anima vile.”
È innegabile che Giovan Battista avesse come preciso modello proprio questa poesia del Caro, e che concependo i suoi nove sonetti intrecciati a «corona» facesse esplicito riferimento all'opera più nota dello zio. Anche per gli altri sei sonetti che completano l'edizione musicale troviamo dei modelli nell'opera canana, e più precisamente nelle Rime, dove sono presenti una cinquantina di sonetti interrelati come proposte e risposte, a mo' di tenzoni poetiche tra l'autore e altri poeti. Tali analogie sia stilistiche che formali tra le Rime del Caro e i sonetti musicati appaiono ancora più significative considerando che l'edizione musicale precede di un anno la pubblicazione, postuma, delle Rime del Caro, a cura proprio di Giovan Battista. L'impressione che se ne trae è che questa raccolta di madrigali, tutta dedicata alla memoria di Annibal Caro, che era scomparso due anni prima e che in vita aveva in verità pubblicato poche opere, e le meno significative, abbia dato l'avvio alla serie delle pubblicazioni postume, queste si consistenti, e in buona parte curate dai nipoti Giovan Battista e Lepido: nel 1569 le Rime e la traduzione di due orazioni greche del Nazianzeno e di un sermone di San Cipriano, nel 1570 la traduzione della Retorica di Aristotele, nel 1572 e 1575 i due volumi delle Lettere, nel 1581 la traduzione dell'Eneide, nel 1582 la commedia Gli Straccioni. Questa edizione musicale dunque risponde ad un fine propagandistico, quello di divulgare, se ancora non lo era abbastanza, il nome di un letterato che, occupato per anni nell'ufficio di segretario dei Farnese, non aveva avuto occasione, sebbene ne nutrìsse il proposito, di raccogliere organicamente e far stampare le proprie opere, anche perché, forse, non le riteneva ancora perfette.
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