DAL MONDO DELLA SCUOLA
[ Ultimo aggiornamento Domenica 14-02-2010 23:49 ]
In questa pagina troveranno posto le iniziative scolastiche (programmi di studio, conferenze, lavori teatrali, laboratori, ecc.) che abbiano come riferimento comune la figura e le opere di Annibal Caro.
Scriveteci per segnalare le iniziative in essere o in programmazione nei vostri istituti e daremo loro ampio spazio in questa pagina. Sono graditi anche suggerimenti ed indicazioni che arricchiscano i contenuti di questo sito.
Se avete video, fotografie o scansioni, inviatecele: serviranno per meglio documentare i vostri lavori.
Dal Corriere NEWS del 1 dicembre 2006.
Fermo / Le iniziative del Liceo Classico - Celebrare l'intitolazione
Finora, i ragazzi che frequentano il Liceo Classico "A. Caro" di Fermo, forse l'unico contatto col letterato che ha dato il nome alla loro scuola l'hanno avuto solo in chiave satirica: con arguzia parodistica hanno intitolato il loro giornalino d'istituto, per l'appunto "L'Acaro". Ma dubitiamo che in questa, e men che meno in altre scuole, l'illustre personaggio sia oggetto di molti approfondimenti. Una gloria del territorio che, a parte qualche scuola e un Teatro intitolati a lui, di gloria da parte dei conterranei ne ha vista poca, finora. Ma il prossimo anno sarà la sua rivincita: per i cinquecento anni dalla nascita la sua città natale ha in mente un programma coi fiocchi. E altrettanto ha in mente il professor Ciro Bove, preside del summenzionato Liceo Classico fermano, che vuole anche lui onorare l'intestatario della propria scuola con un calendario ricco di appuntamenti: convegni, approfondimenti storici e letterari e, come è ormai tradizione in questa scuola, anche teatro. Perché Annibal Caro si è cimentato anche nella scrittura di un testo, intitolato "La Comedia degli Straccioni", che a buon diritto figura tra gli esempi più perfetti di teatro cinquecentesco. Saranno gli stessi allievi gli interpreti della rappresentazione che si dovrebbe tenere al Teatro dell'Aquila, con la regia di Loredana Tomassini, entro la chiusura del corrente anno scolastico. E con l'occasione, sarebbe bello andare a salutare la statua di Annibal Caro, che solitamente se ne sta triste e solitaria nel cortiletto interno del Teatro fermano.
4° Corso di aggiornamento Storia e Beni Culturali "Un monumento per amico"
L'annuale Corso d'aggiornamento Storia e beni Culturali, proposto dall'Assessorato Servizi Educativi e Formativi all'interno della manifestazione culturale "Un Monumento per Amico", in collaborazione con la Pinacoteca Comunale Marco Moretti, i Teatri di Civitanova e la sponsorizzazione della Banca di Credito Coperativo di Civitanova Marche e Montecosaro, è arrivato con successo alla sua quarta edizione.
Per il 2007, in occasione del 5° centenario della nascita del poeta civitanovese Annibal Caro, si propone di trattare in maniera esauriente e appassionante la figura di Caro, le opere meno conosciute del poeta, i suoi legami con gli intellettuali rinascimentali, la sua passione per le arti e il collezionismo. Gli incontri saranno aperti agli insegnanti e studenti, a tutta la cittadinanza, ai curiosi e agli appassionati di storia e storia dell'arte. Quattro gli appuntamenti che verteranno su quattro diversi argomenti proposti da professori e docenti universitari di chiara fama.
Com' è tradizione, a quanti parteciperanno assiduamente, alla fine del corso sarà rilasciato un attestato di frequenza e donata una dispensa con le relazioni e la bibliografia essenziale con il catalogo della mostra "Antichi balocchi".
Civitanova Marche Alta: sala della Delegazione Comunale. (foto di Sergio Fucchi)
Gli incontri si terranno presso la Sala consiliare della Delegazione di Civitanova Marche Alta, in piazza della Libertà, tutti i lunedì del mese di marzo alle ore 15.30 secondo questo calendario:
lunedì 5 marzo 2007, alle ore 15.30 - Prof.ssa Lucia Tancredi:
"Annibal Caro la vita e le amicizie con i grandi del rinascimento italiano";
lunedì 12 marzo 2007, alle ore 15.30 - Prof. Massimo Angelucci Cominazzini, Accademia di Belle Arti di Macerata: "Annibal Caro: dai documenti al documentario";
lunedì 19 marzo 2007, alle ore 15.30 - Prof.ssa Tiziana Temperini: Lettere burlesche: i "Capricci";
lunedì 26 marzo 2007, alle ore 15.30 - Prof. Stefano Papetti, Università di Camerino: "Annibal Caro e le arti figurative".
Sempre per celebrare Annibal Caro la Pinacoteca Comunale Marche Moretti, dopo il restauro della targa commemorativa affissa nella casa natale del poeta nel 1772, nel rinnovare il percorso museale, ha allestito una sala con opere e documenti riguardanti il poeta che potrà essere visitata a conclusione di ogni lezione.
Gli atti riguardanti gli incontri saranno disponibili presso la Biblioteca Comunale "Silvio Zavatt"i di Civitanova Marche a partire dal 29 aprile 2007.
Nella sezione dedicata all' ARCHIVIO si possono trovare anche le brevi recensioni che Raimondo Giustozzi ha scritto sulle singole giornate.
Opuscolo realizzato dalle classi IIB e II C della Scuola Media Annibal Caro di Montegranaro (FM) con la supervisione del Preside, Prof. Federico Del Bianco, e del vice Preside, Prof. Giancarlo Cicconi.
All'interno si trova una descrizione della Prioria dei SS. Filippo e Giacomo e della Cripta di S. Ugo a Montegranaro e del suo attuale stato di degrado ed abbandono.
La parte principale dell'opuscolo è dedicata ad un'interessante dalogo fantastico elaborato dagli studenti e dai docenti della scuola media che riportaimo integralmente.
- Ancora una ricerca scolastica?
- Figurati: un prete di 500 anni, che allegria!
- Non ti disperare, "scarichiamo" tutte le informazioni da internet: finiremo prestissimo.
- OK, allora: "CERCA - ANNIBAL CARO - PRETE...
- Chi osa in "cotesta magnifica Comunità, la quale ho amato a par de la mia Patria", darmi del prete?
Fui sì Priore dell'Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme ma, per curar le anime della chiesa dei santi Filippo e Giacomo di Montegranaro, ebbi alle mie dipendenze cappellani e sacerdoti.
- Ma...tu...lei chi è?
- Ebbii natali nel 1507, in un ridente borgo vicino al mare:Civitanova,"il nido più bello"; fui poeta e letterato, precettore e ambasciatore...
- ...Annibal Caro?
- Ebbene sì e pronto a ragionar con voi, miei cari giovincelli.
- Ora che ha stuzzicato la nostra curiosità, risponderà alle nostre domande?
- Son qui per servirvi.
- Ci parli della sua famiglia.
- La mia bisnonna era montegranarese, Porzia Zeno, maritata ad un Centofiorìni della nobile famìglia di Civitanova. Celanzia era mia madre; mio padre,Giovambattista, esercitava il commercio di oli, aromi e di pannina; morì, ahimé, di peste. Che dire ancora: amai i miei cari fratelli Giovambattista, Fabio, Girolama.
- Come diventò Priore a Montegranaro?
- Dovete sapere che mi recai a Firenze appena diciottenne e diventai maestro del figlio dei signori Lenzi. Nel 1529 Monsignor mio, Giovanni Gaddi, vescovo di Fermo, mi affidò il ricco Beneficio della chiesa dei santi Filippo e Giacomo.
Si sentiva pronto a ricoprire una carica così importante, essendo tanto giovane?
- Dovete sapere, miei cari, che ero sì giovine ma preparato! Tanto ho infatti amato i libri, tanto la poesia,il latino...
- Quella lingua inutile che mio fratello studia al liceo?
- Or udite, ignoranti! Se intendete offender me, non vi potete lamentar poi che io offenda voi! Anzi, poiché ciò mi è cagione di molto dispiacere...
- Ci scusi, non ci lasci,abbiamo capito la lezione. Però che caratterino...
- Ne convengo, ma ciò è poca cosa al confronto di ciò che dissi e
feci quand'io vidi tutto in rovina a causa di Rettori negligenti e
Procuratori tristi.
- Sì, sappiamo che trovò la parrocchia della Prioria ridotta proprio
male, più o meno così com'è oggi.
- Cosa dite?
- La verità: abbiamo sempre trovato chiusa quella che fu la sua
chiesa. Ci è stato detto che ci sono dei lavori di restauro iniziati
tanto tempo fa, ma sappiamo solo che noi abbiamo tredici anni e
non abbiamo avuto mai l'occasione di visitarla.
- Mi arrecate, e non per colpa vostra, un grande dispiacere poiché
m'impegnai tanto a riordinarla:
non esitai nemmeno a ricorrere al Tribunale per avere giustizia di chi aveva preso terre e cose.
- Non volevamo rattristarla; resti ancora con noi, magari per raccontarci di qualche sua missione diplomatica.
- Il mio bell'aspetto, fronte alta e spaziosa, occhi neri ed espressivi, capelli riccioli e folti, mi favorì: per conto dei signori Farnese di Parma e Piacenza, svolsi pericolose e delicate missioni diplomatiche in Lombardia, in Francia e nelle Fiandre.
- Qual è il ricordo più bello di quei tempi?
- Ragazzi cari, quel giorno non lo scorderò mai. Ebbi la fortuna di trovarmi proprio a Bruxelles e festeggiare così anch'io la vittoria dello spagnolo Carlo su Francesco, il francese. Ricordo le belle e vanitose dame dai folti capelli e dalle lunghe vesti: ballavano negli immensi saloni mentre esperti musicisti suonavano...
- Ma...intende dire...Carlo V, l'imperatore il cui regno era così vasto che su di esso "non tramontava mai il sole"?
- Perché questi dubbi, miei cari? Studiate, studiate...
- OK, sorvoliamola ecco allora una domanda che forse non avrà risposta: la sua lontana e noiosa epoca sicuramente non le avrà permesso di vivere un'avventura davvero eccitante,giusto?
- Ed è proprio qui che errate ancora una volta, o baldi giovinetti! lo son convinto del contrario: non oso pensare che voi abbiate assistito alla morte di vostri compagni o alla vista di un esercito schierato minacciosamente... Paura ed anche emozione che provai: solamente io posso sapere!
- Non immaginavamo questo, anzi credevamo che lei fosse solamente uomo di corte, tranquillo ed educatamente corretto. Oppure è sbagliato anche questo?
- Fanciulli, ascoltate: un inesperto grammatico, di nome Ludovico Castelvetro, ebbe l'ardire di contestare una delle mie più belle opere; solo lui, "il verme, il pedantuccio, il mostro potrebbe raccontarvi quel che io gli feci:fu costretto ad esiliare! Che il Signore possa perdonarmi!
- Priore, con l'età riuscì a calmare i suoi bollenti spiriti?
- Giovine impertinente, ebbene sì: dopo aver rinunciato al Priorato in favore di mio fratello Fabio e aver servito fedelmente i miei Signori, mi ritirai nella mia tranquilla proprietà di Frascati. Finalmente in pace, potei far quel che più amavo fare: leggere ancora e tradurre l'opera grande del grande poeta Virgilio: l'Eneide! Lo feci anche per voi...
- Per noi?
- Sicuramente, affinché possiate accostarvi più facilmente ad un'opera eccelsa.
- Forse... non la conosciamo ancora bene ma...grazie: sappiamo che anche oggi, nel 2007, rimane una traduzione capace di "far sognare".
- Adulatori!
- Per questa opera e per il tempo che ci ha dedicato, la ringraziamo, Priore.
- Grazie a voi, ragazzi montegranaresi; vi affido però un'ambasciata: breve tempo ancor concedo a chi deve la mia Parrocchia sistemare! Poche parole a buon intenditor...
Sabato 5 maggio 2007: presso il teatro "La Perla" di Montegranaro (FM), dalle ore 9 alle 12,30 si è svolta una Praelectio (in latino) sull’Eneide, dedicata in modo particolare agli studenti dei Licei della Regione Marche, nella quale è stata ricordata la professoressa Giulia Bonservizi Mastronardi, originaria di Urbisaglia ( MC).
Relatori sono stati l'architetto Giancarlo Rossi di Milano, latinofilo socio della "Sodalitas Latina Mediolanensis" e Vittorio Ciarrocchi di Pesaro, socio del "Grex interretialis Latine loquentium".
Chiunque fosse interessato a ricevere la registrazione audio dei lavori, può scriverci al nostro indirizzo e-mail, specificando se vuole ricevere i due CD in formato audio oppure il CD con il file in formato MP3 e l'indirizzo al quale spedirli.
Riportiamo qui sotto il testo declamato nel corso della Praelectio, tratto dal libro IV dell'Eneide di Publio Virgilio Marone, con a fronte la traduzione di Annibale Caro.
At regina graui iamdudum saucia cura uulnus alit uenis et caeco carpitur igni. multa uiri uirtus animo multusque recursat gentis honos; haerent infixi pectore uultus uerbaque nec placidam membris dat cura quietem. postera Phoebea lustrabat lampade terras umentemque Aurora polo dimouerat umbram, cum sic unanimam adloquitur male sana sororem: 'Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! quis nouus hic nostris successit sedibus hospes, quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis! credo equidem, nec uana fides, genus esse deorum. degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille iactatus fatis! quae bella exhausta canebat! si mihi non animo fixum immotumque sederet ne cui me uinclo uellem sociare iugali, postquam primus amor deceptam morte fefellit; si non pertaesum thalami taedaeque fuisset, huic uni forsan potui succumbere culpae. Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei coniugis et sparsos fraterna caede penatis solus hic inflexit sensus animumque labantem impulit. agnosco ueteris uestigia flammae. sed mihi uel tellus optem prius ima dehiscat uel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras, pallentis umbras Erebo noctemque profundam, ante, pudor, quam te uiolo aut tua iura resoluo. ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores abstulit; ille habeat secum seruetque sepulcro.' sic effata sinum lacrimis impleuit obortis. 30 Anna refert: 'o luce magis dilecta sorori, solane perpetua maerens carpere iuuenta nec dulcis natos Veneris nec praemia noris? id cinerem aut manis credis curare sepultos? esto: aegram nulli quondam flexere mariti, 35 non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas ductoresque alii, quos Africa terra triumphis diues alit: placitone etiam pugnabis amori? nec uenit in mentem quorum consederis aruis? hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile bello, et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis; hinc deserta siti regio lateque furentes Barcaei. quid bella Tyro surgentia dicam germanique minas? dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda hunc cursum Iliacas uento tenuisse carinas. quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna coniugio tali! Teucrum comitantibus armis Punica se quantis attollet gloria rebus! tu modo posce deos ueniam, sacrisque litatis indulge hospitio causasque innecte morandi, dum pelago desaeuit hiems et aquosus Orion, quassataeque rates, dum non tractabile caelum.' His dictis impenso animum flammauit amore spemque dedit dubiae menti soluitque pudorem. |
Ma la regina d'amoroso strale già punta il core, e ne le vene accesa d'occulto foco, intanto arde e si sface; e de l'amato Enea fra sé volgendo il legnaggio, il valore, il senno, l'opre, e quel che piú le sta ne l'alma impresso, soave ragionar, dolce sembiante, tutta notte ne pensa e mai non dorme. Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella cui le piume parean già stecchi e spini; e con la sua diletta e fida suora si ristrinse e le disse: «Anna sorella, che vigilie, che sogni, che spaventi son questi miei? che peregrino è questo che qui novellamente è capitato? Vedestu mai sí grazioso aspetto? Conoscesti unqua il piú saggio, il piú forte, e 'l piú guerriero? Io credo (e non è vana la mia credenza) che dal ciel discenda veracemente. L'alterezza è segno d'animi generosi. E che fortune, e che guerre ne conta! Io, se non fusse che fermo e stabilito ho nel cor mio che nodo marital piú non mi stringa, poiché 'l primo si ruppe, e se d'ognuno schiva non fossi, solamente a lui forse m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero, Anna mia, da che morte e l'empio frate mi privâr di Sichèo, sol questi ha mosso i miei sensi e 'l mio core, e solo in lui conosco i segni de l'antica fiamma. Ma la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini, e ne l'abisso mi trabocchi in prima ch'io ti vïoli mai, pudico amore. Col mio Sichèo, con chi pria mi giungesti, giungimi sempre, e 'ntemerato e puro entro al sepolcro suo seco ti serba». E qui piangendo e sospirando tacque. Anna rispose: «O piú de la mia vita stessa, amata sorella, adunque sola vuoi tu vedova sempre e sconsolata passar questi tuoi verdi e florid'anni? Abbiti insino a qui fatto rifiuto e del getúlo Iarba e di tant'altri possenti, generosi e ricchi duci peni e fenici; ch'io di ciò ti scuso, com'allor dolorosa, e non amante. Ma poich'ami, ad amor sarai rubella, e ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti qual cinga il tuo reame assedio intorno? com'ha gl'insuperabili Getúli da l'una parte, i Numidi da l'altra, fera gente e sfrenata? indi le secche, quinci i deserti, e piú da lunge infesti i feroci Barcèi? Taccio le guerre che già sorgon di Tiro, e le minacce del fiero tuo fratello. Io penso certo che la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno ne si mostrasse allor che a' nostri liti questi legni approdaro. O qual cittade, qual imperio fia questo ! Quanto onore, quanto pro, quanta gloria a questo regno ne verrà, quando ei teco, e l'armi sue saran giunte a le nostre! Or via, sorella, porgi preci a gli dèi, fa' vezzi a lui, assecuralo, onoralo, intrattienlo: ché 'l crudo verno, il tempestoso mare, il piovoso Orïone, i vènti, il cielo, le sconquassate navi in ciò ne dànno mille scuse di mora e di ritegno». |
Speluncam Dido dux et Troianus eandem deueniunt. prima et Tellus et pronuba Iuno dant signum; fulsere ignes et conscius aether conubiis summoque ulularunt uertice Nymphae. ille dies primus leti primusque malorum causa fuit; neque enim specie famaue mouetur nec iam furtiuum Dido meditatur amorem: coniugium uocat, hoc praetexit nomine culpam. |
Solo con sola Dido Enea ridotto in un antro medesimo s'accolse. Diè, di quel che seguí, la terra segno e la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni fûr de le nozze lor le faci e i canti; testimoni assistenti e consapevoli sol ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte n'ulularon le ninfe. Il primo giorno fu questo, e questa fu la prima origine di tutti i mali, e de la morte alfine de la Regina; a cui poscia non calse né de l'indegnità, né de l'onore, né de la secretezza. Ella si fece moglie chiamar d'Enea; con questo nome ricoverse il suo fallo |
Extemplo Libyae magnas it Fama per urbes, Fama, malum qua non aliud uelocius ullum: mobilitate uiget uirisque adquirit eundo, parua metu primo, mox sese attollit in auras ingrediturque solo et caput inter nubila condit. illam Terra parens ira inritata deorum extremam, ut perhibent, Coeo Enceladoque sororem progenuit pedibus celerem et pernicibus alis, monstrum horrendum, ingens, cui quot sunt corpore plumae, tot uigiles oculi subter (mirabile dictu), tot linguae, totidem ora sonant, tot subrigit auris. nocte uolat caeli medio terraeque per umbram stridens, nec dulci declinat lumina somno; luce sedet custos aut summi culmine tecti turribus aut altis, et magnas territat urbes, tam ficti prauique tenax quam nuntia ueri. haec tum multiplici populos sermone replebat gaudens, et pariter facta atque infecta canebat: uenisse Aenean Troiano sanguine cretum, cui se pulchra uiro dignetur iungere Dido; nunc hiemem inter se luxu, quam longa, fouere regnorum immemores turpique cupidine captos. haec passim dea foeda uirum diffundit in ora. |
e di ciò tosto per le terre di Libia andò la Fama. È questa Fama un mal, di cui null'altro è piú veloce; e com' piú va, piú cresce; e maggior forza acquista. È da principio picciola e debil cosa, e non s'arrischia di palesarsi; poi di mano in mano si discopre e s'avanza, e sopra terra sen va movendo e sormontando a l'aura, tanto che 'l capo infra le nubi asconde. Dicon che già la nostra madre antica, per la ruina de' Giganti irata contr'a' celesti, al mondo la produsse, d'Encèlado e di Ceo minor sorella; mostro orribile e grande, d'ali presta e veloce de' piè; che quante ha piume, tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante (meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche per favellare, e per udire orecchi. Vola di notte per l'oscure tenebre de la terra e del ciel senza riposo, stridendo sempre, e non chiude occhi mai. Il giorno sopra tetti, e per le torri sen va de le città, spïando tutto che si vede e che s'ode: e seminando, non men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso di rumor empie e di spavento i popoli. Questa, gioiosa, bisbigliando in prima, poscia crescendo, del seguíto caso molte cose dicea vere e non vere. Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito, venuto era in Cartago, a cui degnata s'era la bella Dido esser congiunta. Queste e cose altre assai, la sozza dea per le bocche degli uomini spargendo, tosto in Getulia al gran Iarba pervenne; |
'dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum posse nefas tacitusque mea decedere terra? nec te noster amor nec te data dextera quondam nec moritura tenet crudeli funere Dido? quin etiam hiberno moliri sidere classem et mediis properas Aquilonibus ire per altum, crudelis? quid, si non arua aliena domosque ignotas peteres, et Troia antiqua maneret, Troia per undosum peteretur classibus aequor? mene fugis? |
«Ah perfido! Celar dunque sperasti una tal tradigione, e di nascosto partir de la mia terra? E del mio amore, de la tua data fé, di quella morte che ne farà la sfortunata Dido, punto non ti sovviene, e non ti cale? Forse che non t'arrischi in mezzo al verno tra' piú fieri Aquiloni a l'onde esporti? Crudele! Or che faresti, se straniere non ti fosser le terre, ignoti i lochi che tu procuri? E che faresti, quando fosse ancor Troia in piede? A Troia andresti di questi tempi? E me lasci, e me fuggi? |
per ego has lacrimas dextramque tuam te (quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam dulce meum, miserere domus labentis et istam, oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem. te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni odere, infensi Tyrii; te propter eundem exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam, fama prior. cui me moribundam deseris hospes (hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)? quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas? saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles, si quis mihi paruulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta uiderer.' |
Deh! per queste mie lagrime, per quello che tu della tua fé pegno mi desti (poiché a Dido infelice altro non resta che a sé tolto non aggia), per lo nostro marital nodo, per l'imprese nozze, per quanti ti fei mai, se mai ti fei commodo o grazia alcuna, o s'alcun dolce avesti unqua da me; ti priego ch'abbi pietà del dolor mio, de la ruina che di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo han le preci con te) che tu del tutto lasci questo pensiero. Io per te sono in odio a Libia tutta, a' suoi tiranni, a' miei Tiri, a me stessa. Or come in preda solo a morte mi lasci, ospite mio? ch'ospite sol mi resta di chiamarti, di marito che m'eri. E perché deggio, lassa, viver io piú? Per veder forse che 'l mio fratel Pigmalïon distrugga queste mie mura, o 'l tuo rivale Iarba in servitú m'adduca? Almeno avanti la tua partita avess'io fatto acquisto d'un pargoletto Enea che per le sale mi scherzasse d'intorno, e solo il volto, e non altro, di te sembianza avesse; ch'esser non mi parrebbe abbandonata, né delusa del tutto». |
pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto speraui (ne finge) fugam, nec coniugis umquam praetendi taedas aut haec in foedera ueni. me si fata meis paterentur ducere uitam auspiciis et sponte mea componere curas, urbem Troianam primum dulcisque meorum reliquias colerem, Priami tecta alta manerent, et recidiua manu posuissem Pergama uictis. sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, Italiam Lyciae iussere capessere sortes; hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis, quae tandem Ausonia Teucros considere terra inuidia est? et nos fas extera quaerere regna. me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt, admonet in somnis et turbida terret imago; me puer Ascanius capitisque iniuria cari, quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus aruis. nunc etiam interpres diuum Ioue missus ab ipso (testor utrumque caput) celeris mandata per auras detulit: ipse deum manifesto in lumine uidi intrantem muros uocemque his auribus hausi. desine meque tuis incendere teque querelis; Italiam non sponte sequor.' |
Ora in discarco di me dirò sol questo, che sperato, né pensato ho pur mai d'allontanarmi da te, come tu di'. Se 'l mio destino fosse che la mia vita e i miei pensieri a mia voglia reggessi, a Troia in prima farei ritorno: raccôrrei le dolci sue disperse reliquie: a la mia patria di nuovo renderei la vita e i figli, e la reggia e le torri e me con loro. Ma ne l'Italia il mio fato mi chiama. Italia Apollo in Delo, in Licia, ovunque vado, o mando a spïarne, mi promette. Quest'è l'amor, quest'è la patria mia. Se tu, che di Fenicia sei venuta, siedi in Cartago, e ti diletti e godi del tuo libico regno; qual divieto, qual invidia è la tua, che i miei Troiani prendano Ausonia? Non lece anco a noi cercar de' regni esterni? E non cuopre ombra la terra mai, non mai sorgon le stelle, che del mio padre una turbata imago non veggia in sogno, e che di ciò ricordo non mi porga e spavento. A tutte l'ore del mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria che riceve da me sí caro pegno, se del regno d'Italia io lo defraudo, che gli son padre, quando il fato e Giove ne 'l privilegia. E pur dianzi mi venne dal ciel mandato il messaggier celeste a portarmi di ciò nuova imbasciata dal gran re degli dèi. Donna, io ti giuro per la lor deità, per la salute d'ambedue noi, che con quest'occhi il vidi qui dentro in chiaro lume; e la sua voce con quest'orecchi udii. Rimanti adunque di piú dolerti; e con le tue querele né te, né me piú conturbare. Italia non a mia voglia io seguo». |
'nec tibi diua parens generis nec Dardanus auctor, perfide, sed duris genuit te cautibus horrens Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres. nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reseruo? num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit? num lacrimas uictus dedit aut miseratus amantem est? quae quibus anteferam? iam iam nec maxima Iuno nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis. nusquam tuta fides. eiectum litore, egentem excepi et regni demens in parte locaui. amissam classem, socios a morte reduxi (heu furiis incensa feror!): nunc augur Apollo, nunc Lyciae sortes, nunc et Ioue missus ab ipso interpres diuum fert horrida iussa per auras. scilicet is superis labor est, ea cura quietos sollicitat. neque te teneo neque dicta refello: i, sequere Italiam uentis, pete regna per undas. spero equidem mediis, si quid pia numina possunt, supplicia hausurum scopulis et nomine Dido saepe uocaturum. sequar atris ignibus absens et, cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus umbra locis adero. dabis, improbe, poenas. audiam et haec Manis ueniet mihi fama sub imos.' |
«Tu, perfido, tu sei di Venere nato? Tu del sangue di Dardano? Non già; ché l'aspre rupi ti produsser di Caucaso, e l'Ircane tigri ti fûr nutrici. A che tacere? Il simular che giova? E che di meglio ne ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti ha mai questo crudel tratto un sospiro, o gittata una lagrima, o pur mostro atto o segno d'amore, o di pietade? Di che prima mi dolgo? di che poi? Ah! che né Giuno omai, né Giove stesso cura di noi: né con giust'occhi mira piú l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede? E chi piú la mantiene? Era costui dianzi nel lito mio naufrago, errante, mendíco. Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti i suoi compagni, e i suoi navili insieme, ch'eran morti e dispersi; ed io l'ho messo (folle!) a parte con me del regno mio, e di me stessa. Ahi, da furor, da foco rapir mi sento! Ora il profeta Apollo, or le sorti di Licia, ora un araldo, che dal ciel gli si manda, a gran faccende quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo di ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo a lor quïete. Or va', che per innanzi piú non ti tegno, e piú non ti contrasto. Va' pur, segui l'Italia, acquista i regni che ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi son pietosi, e se ponno, io spero ancora che da' vènti e da l'onde e da gli scogli n'avrai degno castigo; e che piú volte chiamerai Dido, che lontana ancora co' neri fuochi suoi ti fia presente: e tosto che di morte il freddo gelo l'anima dal mio corpo avrà disgiunta, passo non moverai che l'ombra mia non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai ricompensa a' tuoi merti, e ne l'inferno tosto me ne verrà lieta novella». |
hic, postquam Iliacas uestis notumque cubile conspexit, paulum lacrimis et mente morata incubuitque toro dixitque nouissima uerba: 'dulces exuuiae, dum fata deusque sinebat, accipite hanc animam meque his exsoluite curis. uixi et quem dederat cursum Fortuna peregi, et nunc magna mei sub terras ibit imago. urbem praeclaram statui, mea moenia uidi, ulta uirum poenas inimico a fratre recepi, felix, heu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae.' dixit, et os impressa toro 'moriemur inultae, sed moriamur' ait. 'sic, sic iuuat ire sub umbras. hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis.' dixerat, atque illam media inter talia ferro conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore spumantem sparsasque manus. it clamor ad alta atria: concussam bacchatur Fama per urbem. lamentis gemituque et femineo ululatu tecta fremunt, resonat magnis plangoribus aether, non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis Karthago aut antiqua Tyros, flammaeque furentes culmina perque hominum uoluantur perque deorum. |
e rimirando i frigi arnesi e 'l noto letto, poich'in sé raccolta lagrimando e pensando alquanto stette, sopra vi s'inchinò col ferro al petto, e mandò fuor quest'ultime parole: «Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care a voi rendo io quest'anima dolente. Voi l'accogliete: e voi di questa angoscia mi liberate. Ecco, io son giunta al fine de la mia vita, e di mia sorte il corso ho già compito. Or la mia grande imago n'andrà sotterra: e qui di me che lascio? Fondata ho pur questa mia nobil terra; viste ho pur le mie mura; ho vendicato il mio consorte; ho castigato il fiero mio nimico fratello. Ah, che felice, felice assai morrei, se a questa spiaggia giunte non fosser mai vele troiane!» E qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto vi tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque morrò senza vendetta? Eh, che si muoia, comunque sia. Cosí, cosí mi giova girne tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo, mentre meco era, il mio foco non vide, veggalo di lontano; e 'l tristo augurio de la mia morte almen seco ne porte». Avea ciò detto, quando le ministre la vider sopra al ferro il petto infissa, col ferro e con le man di sangue intrise spumante e caldo. In pianti, in ululati di donne in un momento si converse la reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro voci alte e fioche, e suon di man con elle. N'andò per la città grido e tumulto, come se presa da' nemici a forza fosse Tiro, o Cartago arsa e distrutta. |
Venerdì 18 maggio 2007: al teatro dell'Aquila di Fermo il professor Giorgio Corsi ha consegnato al vincitore il premio della Fondazione Corsi, che consiste in una medaglia recante l'effigie di Annibale Caro.
E' seguita una rappresentazione degli "Straccioni" curata del gruppo teatrale del Liceo-ginnasio "Annibal Caro" di Fermo. Nella sezione ARCHIVIO potete trovare più ampi dettagli su questa rappresentazione e sulle altre due successive, per le quali si ringraziano gli studenti del Liceo-ginnasio di Fermo che stanno attivamente collaborando con noi per divulgare questa loro bella esperienza.
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