ANALISI TRANSAZIONALE DELLE VICENDE AMOROSE NE «GLI STRACCIONI» DI ANNIBAL CARO
(Saggio già pubblicato nel 1968 in "STUDI LATINI E ITALIANI", Header Editrice e Libreria, Roma)
«La relazione uomo-donna è il luogo privilegiato dove la conflittualità si esplica attraverso uno scambio assai complesso di messaggi comunicativi [...] in cui lo scarto tra significato letterale e significato profondo può essere tale che il primo risulta un pretesto, un sintomo» 1. Ogni relazione è una 'scena' sulla quale il linguaggio rappresenta «la sua lunga carriera di cosa agitata e inutile» 2.
La più rappresentativa di queste relazioni è quella del rapporto di coppia, esistendo in esso, assieme alla dimensione affettiva, un'altra che si basa sul dislivello di potere; esso genera un conflitto quasi sempre sotterraneo che si evidenzia nella comunicazione.
Per verificare questo ho scelto un argomento «neutro» 3 e «antico» come Gli Straccioni, un testo sul quale ho tentato una analisi relazionale; il mio approccio, del tutto sperimentale, utilizza concetti e categorie interpretative ricavate da questo modello psicologico. Ho così scoperto che dietro una apparente semplicità trovano spazio giochi assai complessi: parole che veicolano messaggi di potere, competitività, frustrazione/aggressività, ricerca della definizione del Sé attraverso il partner.
N. Borsellino, studioso tra i più attenti della commedia, pur in un'ottica differente, in un certo senso legittima la mia scelta quando afferma:
«Oggi, Gli Straccioni, se li riprendiamo in mano per una lettura libera da quegli schemi di classificazione che hanno a lungo imprigionato il giudizio sulla nostra produzione drammatica cinquecentesca, non ci appaiono come un testo da catalogare negli inventari del nostro antiquariato letterario ma come un copione teatrale vivo nelle sue proposte sceniche, che può suggerire a ciascuno di noi un'idea della sua rappresentabilità» 4.
Se gli Straccioni, come altre commedie del ‘500, sono specchio, per quanto idealizzato, di una società incline a descriversi attraverso la rappresentazione, in essa si rintracciano i caratteri dell'amore — anche se la caratterizzazione psicologica non era nelle intenzioni dell'autore 5 — come espressione di un atteggiamento tutt'altro che secondario della cultura, della società del tempo e della commedia stessa.
Ritorno sulla scelta dell'argomento: una commedia che la critica per anni ha definito moralistica 6, poi fredda e manierista poiché legata a motivi di propaganda politica 7, si dipana tutta attraverso meandri di amori ostacolati, non ricambiati, infelici, luttuosi 8, per poi trovare con il concorso del deus ex machina un happy end. Infatti lo scopo è quello del divertimento:
la cagion che lo muove è da ridere
confessa l'autore (Prologo, §3): già il De Sanctis aveva colto nelle commedie del ‘500 la comicità di una borghesia che ride attraverso l'autoironia:
Già sete contenti tutti, e così siate sempre [...] E voi spettatori fate segno d'allegrezza (V, V) 9
è la conclusione della commedia, all'insegna di un festeggiamento nuziale che pone fine a tante peripezie, le più stravaganti e artificiose, le quali prendono avvio da vari giochi amorosi, dove gioco non è da intendersi in senso ludico, ma in quello di transazioni interpersonali di comportamenti di coppia, in cui l'atto amoroso con scambio di intimità — uno degli aspetti del moralismo della commedia — è totalmente escluso.
Il canovaccio romanzesco della trama, derivata dalle Avventure di Leucippo e Clitofonte, un romanzo greco di Achille Tazio 10, dalla novella boccacciana di Gerbino 11, dalle suggestioni sentimentali delle Heroides di Ovidio, è quindi già collaudato; la mentali delle Heroides di Ovidio, è quindi già collaudato; la onde risultino emblematici e fortemente didascalici:
«L'autore [...] s'è ingegnato (come meglio ha potuto di piacervi)» per questo nella scelta dell'argomento «ha seguito l'uso degli antichi» con l'apporto di qualche novità «considerati che sono alterati [...] i tempi e i costumi, i quali sono quelli che fanno variar l'operazioni e le leggi dell'operare» (Prologo).
Già nel Prologo 12 la trama si annuncia complicata e avvincente:
Una lite che [gli Straccioni] fanno coi Grimaldi [...] una figliuola ch'hanno lasciata a Scio e [...] una nipote che non sapevano d'avere a Roma (§ 3).
Questo dà il via a una sarabanda di «scompigli», «inganni», «gelosie», «questioni», «paure», che a loro volta generano:
Varie e quasi incredibili mescolanze di diversi accidenti di fortuna, di diverse nature e consigli d'uomini di più condizioni, di morti che vivono, di vivi che son morti, di pazzi che son savi, di vedovi maritati, di mariti che hanno due mogli, di mogli che hanno due mariti. Vi sono spiriti che si veggono, parenti che non si conoscono, familiari, inimici, prigionieri liberi, e altre cose tutte stravaganti e tutte nuove (Prologo, § 3).
L'accumulo ingarbugliato di personaggi e situazioni è finalizzato a uno scioglimento finale, nel quale più che altrove si rivela l'intento didascalico 13.
Essendo «il rispecchiamento mondo-teatro [...] tipico della visione umanistica [...] è anche una scoperta umanistica che il quotidiano, il mediocre, finanche il basso, comunque l'antisublime, non sia affatto un modo degradato di rappresentare il mondo»; per questo la commedia può definirsi «mimesi del quotidiano» 14.
L'ambiente, pur nella frammentazione e varietà di personaggi, è quello di una sola grande famiglia — lo sappiamo alla fine della commedia — dove chi conta è l'uomo. La donna, ma solo in quanto moglie, e in tal caso può costituire un vero e proprio affare se si combinano insieme «Bellezza, onestà, ricchezza e amore» (II, I), non esercita mai una grande influenza, restando sempre proprietà privata prima del padre e poi del marito: Giuletta 15 infatti è 'contesa' da questi due.
Essa è assimilata alla «robba»: nelle battute seguenti si parla di Argentina, la ricca signora che si è innamorata di Gisippo:
Pilucca. [...] La conoscete?
Demetrio. No, ma n'ho inteso parlar qui da certi.
Pilucca. Che ne dicevano?
Demetrio. Ch'è bella.
Pilucca. Bellissima.
Demetrio. Ricca.
Pilucca. Ricchissima.
Demetrio. Buona robba.
Pilucca. Buonissima (III, II).
Scopo del matrimonio — purché avvenga tra persone 'dabbene' («come suole avvenire che i sangui s'affrontano», Satiro, I, IV) — del quale matrimonio l'uomo si avvantaggerà nel caso di una donna più ricca, è diventare padrone anche della «robba» di lei:
Satiro. Una vedova, gentildonna ricchissima [...] non l'ha prima veduto che s'è innamorata di lui e lo vuole per marito e per signore di tutta la sua robba. E che robba, e che donna arebbe egli! Un contado (si può dire) e una dea (I, IV).
Consapevole delle regole sociali, colei che resta vedova non intende usurpare il posto di capo-famiglia: la sua sarà una reggenza in attesa del marito scomparso o di un nuovo matrimonio che salvaguardi «la robba» dal furto dei servi: 16
Pilucca. Questa mia padrona m'ha stracco con tante minuzie ch'ella mi domanda. Già quattro volte m'ha fatto richiamar di cantina, e più di mille ha voluto ch'io le replichi che il padrone è morto [...] Ma io non mi voglio morir in tanto [...] Sarà bene che me ne vada a ber un tratto col fattore e a rinovar la lega con lui di rubar la padrona (I, IV).
Marabeo [...] Per noi si fa che la padrona sia innamorata e non rimaritata. Ora che starà col capo a bottega, come potremo poi più ruspare? E se il marito ha stocco, dove ci troviamo noi del ruspato? (II, III).
La donna è passiva e ubbidiente verso l'uomo, simbolo di autorità indiscussa, espressione completa, perfetta, insuperabile del potere:
Demetrio. Fate che la vedova sia a ordine, che li farò fare ogni cosa.
Barbagrigia. Le donne sono a ordine sempre (II, I).
Dove l'espressione «a ordine» al di là del valore di 'prontezza' ha quello ulteriore e ben più significativo di 'ubbidienza', 'sottomissione'.
Il matrimonio. E' questo, oltre che un affare, un punto d'onore per le famiglie contraenti, le quali 'devono' poter acconsentire; diversamente la coppia si macchierà della colpa della trasgressione.
Giovanni e Battista, gli «Straccioni», incontrando Demetrio ricordano la fuga della figlia Giuletta con Tindaro; a seguito di questo avvenimento, quasi fosse un lutto, decidono di tenersi addosso gli 'stracci':
Giovanni. A' poveri e malcontenti, come noi siamo, non si conviene altro abito.
Battista. E finché non ci vendichiamo de la soperchiaria che ci è stata fatta. Demetrio. Da chi? [...] Battista. Da Tindaro e da Demetrio.
Demetrio. [...] E ciò che ha fatto Tindaro, non si può dir che sia per altro che per troppo amore che porta a la Giuletta. Giovanni. Un gran bene, perdio!Battista. E un grande amore è stato il suo. Giovanni. A disonorar lei. Battista. E ingiuriare tutto il suo parentado. Demetrio. Lei non l'hanno disonorata, perché l'amore è legittimo, poiché si vuol per moglie. Voi non hanno ingiuriati, poiché non si son mossi per vostro dispregio, ma per desiderio d'apparentar con voi.
Giovanni. A nostro dispetto? [...]
Demetrio. Oh! Se voi non avete mai voluto consentirvi? [...] Vi ricordo che la pazienza senza speranza negli innamorati diventa disperazione. Battista. E negli ingiuriati si risolve in vendetta (I, II).
L'ostilità verso Tindaro è motivata dall'aver trasgredito le norme che regolano i matrimoni:
Giovanni. Quel che meritava per le sue qualità, ha dimeritato per la sua insolenza.
Battista. E se procedeva con la debita modestia, senza rapirla era sua.
Demetrio. Sua è ella adesso [...]
Giovanni. Non l'ara di nostro consenso, perché non può essere con nostro onore (I, II).
Ma l'onore entra in ballo anche per chi prende parte all'apparato matrimoniale. Barbagrigia, che ha brigato per l'unione di Tindaro con Argentina, si irrita vedendo sfumare il matrimonio, anche se pare sensibile alla frustrazione della donna:
Barbagrigia. [...] Qui nasce anco sospetto che questa sia piuttosto una ritirata che una dilazione. E se questo è, pensatela bene! Io ho impegnata la fede, io ho presentato il gioiello per parte vostra, e per parte vostra si sono intimate le nozze. Ora, se non si fanno, l'ingiuria sarà grande; lo sdegno de le donne è precipitoso; e ella, come sapete, è potente. Io vi ricordo che Voi abbiate molto ben l'occhio a l'onor suo e al debito vostro (III, IV).
* * * *
La commedia ci permette di entrare in un mondo arcaico, dove la vendetta personale punisce l'atto trasgressivo 18 («ci vendichiamo de la soperchiaria che ci è stata fatta, I, II», dicono gli Straccioni all'inizio della commedia); e il rapimento di Giuletta — solo così Tindaro potrà averla — è pagato caro dai rapitori:
Demetrio. [...] Oh, questa sarà bella che non voglia più la Giuletta quando l'avremo rapita per forza, quando siamo condennati, confinati, minati per averla (I, III).
Arcaico e duro nei sentimenti: l'innamoramento è riprovevole, una debolezza da cui fuggire:
Demetrio. [...] Darsi in preda al dolore per cosa ch'è naturale e necessaria, e senza rimedio, non si conviene né a la prudenza, né a la costanza d'un gentiluomo vostro pari (I, III).
Oppure una forza selvaggia che scatena gelosia e aggressività verso il rivale:
Giordano. So che queste nozze diventeranno questa sera un mortoro, io. Perché non lo veggo io ancora che me gli avventi addosso? Io gli aprirò pur il petto, li mangerò pur il core (IV, II).
Ma l'amore può nascere anche da pulsioni sessuali per la donna che è solo oggetto passivo:
Marabeo. [...] Quel capitano [...] mi mostrò questa figura per sua schiava. Piacquemi tanto quanto mi dispiacciono tutte l'altre donne [...] La comperai e [...] la menai pur qui, sperando di [...] esser ben fornito per la lussuria. Ma [...] non l'ho potuta tener secreta, e per molte carezze e minacce e strazi che gli abbi fatto, mai non l'ho potuta disporre a guardarmi pur una volta di buon occhio (I, V).
Un mondo duro ma anche affettuoso: per Agatina-Giuletta che ha subito le prepotenze di Marabeo:
Agatìna. Can mastino, che abita in questa casa, dove m'ha tenuta tanti mesi per forza; e degli strazi che ha fatto de la mia persona, per espugnar la mia verginità e per venderla, ne possono in parte far fede questi ferri e queste battiture (IV, IV)
c'è tutta la comprensione del Procuratore:
Rossello. Lassate fare a me figliuola, che sarete consolata. Entrate per ora in casa di questa gentildonna romana, che sarete come tra i vostri medesimi (IV, IV)
figura assolutamente 'positiva' nella commedia:
Rossello. Basta, io l'ho liberata, l'ho depositata in questa casa. Di poi mi sono informato da lei, ho inteso tutti i suoi casi, ho trovato ch'è vostra figliuola, ho preso la difension de la sua libertà e farò che questi ribaldi siano castigati (V, III).
Un mondo serio — di piccoli avvenimenti e piccoli uomini inquadrati in un contesto storico e urbanistico importante — ma con qualche concessione a una cert'aria svanita e gaudente:
Demetrio. Pilucca [...] Io non sono mai stato a Roma; di grazia fammi il piloto fino a tanto ch'io truovi questo messer Tindaro ch'io t'ho detto.
Pilucca. Prima che si beva?
Demetrio. Oh, tu hai bevuto a Ripa in tanti luoghi.
Pilucca. Oh, oh, e da Ripa in qua? [...] Dov'è il palazzo di Casa Farnese?
Demetrio. Se fosse un magazzin di vino, già l'arebbe trovato.
Pilucca. E forse questo? Oh, non era tant'alto.
Demetrio. Tu sei ben più alto di lui 19 (I, I).
La scena si ripete più avanti:
Pilucca. Non mi riconosci ancora? Sono il tuo Pilucca.
Marabeo. Da Lucca?
Pilucca. Son Pilucca.
Marabeo. Oh Pilucca [...] (I, IV).
Infine Mirandola — il «pazzo» — che compare in mezzo a una combriccola di furbi che vivono di espedienti 20:
Lispa. Oh ecco il Mirandola, che vien di qua. Di grazia facciamo una burla prima a lui, per metterlo con le mani con gli Straccioni 21 [...]
Lispa. Da parte del Gran Turco ti dico che tu staggisca questi danari in mano de' Grimaldi e che ne facci tante genti per l'impresa [...]
Mirandola. Con quante migliaia? Lispa. Con millantamila. Mirandola. Che disegno è '1 vostro? Lispa. Metter Monte Mari dentro da Roma. Mirandola. Per che fare?
Lispa. Per esser a cavaliero a Castel Sant'Angelo. Mirandola. Oh che il canchero vi mangi! Voi comincerete pur a 'ntenderla. Mettetevi anco di sopra il Coliseo e la Rotonda per gabbioni da piantare artiglierie. E per cannoni conducetevi le colonne di Traiano e d'Antonino. Lispa. E le guglie?
Mirandola. Di quella di San Pietro fatene un ariete, e de l'altre servitevene per ferri da passatoi, e degli archi de le Terme fate balestre a panca (II, V).
Questo spirito ludico cede anche alla sguaiatezza; ne è portavoce il servo Pilucca:
Pilucca. [...] Mi piace questa dottrina. Di chi è ella? Di Peripottetici, o di Stronzici?
Marabeo. Che vuoi far di questi Alfabecochi? (I, IV)
il quale non si fa scrupolo di usare espressioni oscene:
Pilucca. Oh, benissimo. Or sì che gli daremo in culo a Castracelo 22.
Giordano. Che di' tu Pilucca?
Pilucca. Dico, che il nemico vi darà presto ne l'ugna, e l'amica ne la brachetta 23 (IV, II).
Un mondo avaro, furbo e prepotente:
Pilucca. [...] Oltre all'esser io tristo di natura, ho imparata l'arte da te, e ultimamente mi sono addottorato in galera [...] Avemo fatte tante tristizie insieme che per ambedue fa di star cheti e di tenerci il sacco l'un l'altro. Voglio di quei che tu hai rubato la parte mia fino al finocchio, o io guasterò questa vendemmia ancora a te (I, IV)
ma capace di slanci:
Barbagrigia. [...] Dove è lo sposo?
Demetrio. Si sente male.
Barbagrigia. Che male? Male sta quella gentildonna, ch'è disperata e male arrivata per amor suo. Bisogna cavar le mani di queste nozze (III, IV)
anche fra uomini 'rivali':
Gisippo. Cavaliero, io mi sento tutto non so in che modo intenerito [...] sicché vi perdono la soperchiarla che m'avete fatta, e vogliovi per fratello (V, V).
Cittadino 24:
Procuratore. Oh ghiotto da forche, in Roma, ne la piazza Farnese, a tempo di Paolo terzo queste soperchierie ad una vergine! E forse, che 1 Papa non si truova di presente in questo suo palazzo? Non dubitate, figliuola mia, che voi sete salva, e questo tristo sarà castigato (III, IV)
e cosmopolita allo stesso tempo:
Giovanni. Roma santa, Roma santa. Roma del diavolo.
Battista. Roma del diavolo, Roma doma.
Sospirano esausti gli Straccioni entrando in città, dopo un viaggio infinito:
Giovanni. Da Scio a Genova.
Battista. Da Genova a Roma.
Giovanni. Da Erode a Pilato.
Demetrio. Sono sciotti: vengono da Genova e litigano [...] (I, II).* * * *
I dialoghi e la trama sono espressione funzionale di una civiltà mercantile basata sull'economia e sull'utile. Anche la vita spirituale non sembra sottrarsi a questa legge, fatta eccezione per i due innamorati Tindaro e Giuletta, i quali obbediscono a un'altra legge, quella che rende 'schiavi' d'amore. Ruotando la commedia attorno alla «robba», da essa prendono il via tutte le battaglie, anche legali, per raggiungere la ricchezza ed evitare di perderla: per chi teme la miseria e teme di entrarci l'arte dell'inganno e del raggiro sono gli unici espedienti di salvezza. E' una sorta di ascesi del materialismo, quella che si celebra nella commedia, trattandosi di un mondo di mercanti audaci e tenaci, pronti a lottare per la «robba»; e accanto a loro individui più umili: artigiani, fattori, servi, che si trasformano in profittatori e ladri senza scrupoli:
Pilucca. Marabeo, tu sai ch'io ti conosco, e tu conosci me. Oltre all'esser io tristo di natura, ho imparato l'arte da te, e ultimamente mi sono addottorato in galera (I, IV)
veri campioni di malizia, spavaldi e cinici:
Marabeo. [...] De la robba Pilucca, de la robba, se volemo esser galantuomini. E se i nostri non ce l'hanno lassata e costoro non hanno tanta discrezione che ce ne diano, se non abbiamo arte da guadagnarne, se la fatica non c'è sana, è così gran cosa che ci vagliamo de le nostre mani? (I, IV).
Per questo cercano la vendetta contro il ricco e pensano che la cattiveria gli garantisca la sopravvivenza. Sono personaggi che si mostrano sfuggenti e arroganti:
[...] Commettiamo del male [...] (II, III).
[...] Ruini il mondo, purché stiamo ben noi (IV, I).
Ma non basta: la «robba» si lega anche, come si è già visto, alla vita affettiva. In questo caso è il possesso di una donna, Giuletta, e del suo innamorato Tindaro da parte di Argentina, a mantenere vivi, conflittualmente, i rapporti tra le persone e a imbrogliare, nonché sbrogliare, la matassa della commedia.
La commedia possiede una realtà dinamica per le interazioni fra i personaggi, in cui è possibile isolare e descrivere un insieme ricorrente di transazioni basate sul gioco amoroso e rivolte a un risultato ben definito e prevedibile, che è quello del possesso della persona. C'è da dire che l'amore, quando anche ne abbia l'apparenza, non è mai gioiosa vitalità, ma ripetizione di comportamenti stereotipati: siamo nel moralismo rinascimentale e l'opera mira alla propaganda politica.
I rituali del gioco sono efficaci e vantaggiosi: alcuni, insuperabili per virtuosismo psicologico, hanno lo scopo di assicurare il massimo utile, come il tentativo di persuasione di Tindaro da parte di Demetrio al matrimonio con Argentina, o gli ostacoli allo stesso da parte di Marabeo e Pilucca. I giochi possono comportare conflitti, ma la conclusione è sensazionale e tutt'altro che drammatica.
In questo caso il gioco è da intendersi come un insieme di operazioni, meglio ancora di manovre, in cui ciascuno ha un ruolo: al momento opportuno tenta il 'colpo' vantaggioso e più o meno pesante per l'avversario: è quindi un gioco che non implica necessariamente divertimento, se non la felice conclusione: perché l’ happy end rientrava nel gioco più vasto della commedia in quanto genere letterario. Il gioco sta nel fatto che le emozioni obbediscono a determinate regole e determinano certi comportamenti. Ogni personaggio mira a ricavare il massimo utile (siamo nel mondo della «robba») dall'interazione con gli altri. La serie dei passaggi delle interazioni amorose potrebbe essere cosi schematizzata 25:
La commedia prende il via dalla transazione complementare e reciproca Tindaro — Giuletta, innamorati smisuratamente l'uno dell'altro, ma costretti alla fuga dalla ostilità dei parenti di lei, gli Straccioni appunto. La cattura e la presunta uccisione della fanciulla da parte dei Mori giustificano l'intera vicenda, «rinterzata» — come dice l'autore nel Prologo — da una truffa subita dagli Straccioni. Una volta separati, i due innamorati si sintonizzano sullo stesso registro amoroso: il loro linguaggio letterariamente è quello della tradizione provenzale, volutamente dissacrato dall'autore attraverso la ripetizione fredda di questi modelli. I tradizionali appellativi appassionati, con la funzione di veicolare affetto estatico, dedizione eterna, fedeltà indiscussa 27, si corrispondono puntualmente. Ambedue sono il prototipo degli amanti infelici, perseguitati dalla sfortuna, tant'è che devono cambiare nome: Tindaro --> Gisippo; Giuletta --> Agatina.
Prima viene presentato Gisippo, infelicissimo per la perdita di Giuletta 28:
Gisippo. E questo è il mio dolor messer Demetrio, ch'ella non è morta quando e come muoiono l'altre. E' stata uccisa, fanciulla innocente, per man di cani, di morte crudelissima, in cospetto mio, e peggio, ch'io ne sono stato cagione. Ahi, Giuletta sventurata (I, III).
Il dolore è «infinito», «è fitto»: impossibile per lui pensare a un'altra donna, nella fattispecie madonna Argentina:
Gisippo. Io non potrei mai far questo torto a Giuletta (II, I); il dolor non mi lascia [...] il genio l'abborrisce [...] i sogni me ne spaventano [...] l'imagine di lei mi tien sì fittamente occupato ch'io non posso rivolgere il pensiero a veruna altra donna (II, I).
Il clou dei bamboleggiamenti, dei sospiri zuccherosi — il clima sembra quello delle ariette del Metastasio — è nell'addio di Gisippo a Giuletta perché convinto da Demetrio, che vede nel matrimonio dell'amico con la ricca vedova una fuga per se stesso dalla miseria. Egli fa un uso cinico e opportunista dell'amore, che Gisippo fuori dalla realtà, preso com'è dal soliloquio amoroso, nemmeno intuisce: omnia munda mundis!
Demetrio. Io v'ho detto che il dolor passerà via, il genio vi detterà il contrario allora che non sarà corrotto da questa passione. I sogni, voi sapete che son sogni, e che una immagine si scancella col suggello d'un'altra imagine (II, I).
Gisippo, chiamandola «anima santa» — Giuletta 'è morta' vergine e martire — si congeda da lei promettendole fedeltà di cuore: resta confermata la regressione a uno stadio di totale passività del tipo «fate di me quel che volete» :
Gisippo. Anima santa tu sei pur in loco da poter chiaramente vedere la costanza de l'animo mio, la grandezza del mio dolore, e il desiderio di venir dove tu sei. Tu senti che il tuo nome m'è sempre in bocca. Tu vedi che la tua imagine mi sta continuamente nel core. Tu sai che d'altri che tuo non posso essere, quando bene ad altri sia dato. Conosci da l'altra parte le tentazioni, gli obblighi, le ragioni che in parte mi muovono a rompere il mio proponimento. Ma se di mia volontà in niuna parte ho mai violate le leggi dell'amore, non ti sdegnare che ora sforzatamente io adempia quelle de l'amicizia. Demetrio, cordialissimo nostro amico, fedelissimo ministro degli amori nostri, mi costringe a legarmi con altra donna: per questo io da te mi disciolgo. L'animo mio sera sempre tuo. Il corpo, che tuo non può essere, vendo per necessità de l'amico. Se io son fedele a te, piacciati che non sia ingrato a lui. Ma pochi in questa miseria saranno i miei giorni, questi pochi contentati ch'io gli spenda a benefizio d'un tanto nostro amorevole. E perché io esca de l'affanno ch'io sento a non esser teco, o a te mi richiama o, potendo, in qualche parte mi consola. Andate messer Demetrio, e fate di me quel che vi pare, ch'io son già vinto da l'obbligo che vi tengo (II, I).
Gisippo ha giocato, in assoluta buona fede, nei termini di «non è colpa mia», assolvendosi così dai sensi di colpa e probabili accuse: nel crollo generale sposta sull'amico creduto sincero un sentimento di oblazione.
I due innamorati, che comunicano proprio 'grazie' alla separazione, conducono, ciascuno per proprio conto, un gioco simile, finalizzato all'interazione.
Giuletta rilancia con un gioco più pesante. Compare verso la fine della commedia, presentandosi in scena con una invocazione, «O Vergine madre aiutami», e ribellandosi a Marabeo, che nel frattempo si è innamorato di lei, ma su un altro registro, quello della «lussuria», quando ancora era schiava, e come tale l'aveva comprata e nascosta in casa di Argentina, sua padrona:
Marabeo. Piacquemi tanto quanto mi dispiacciono tutte l'altre donne [...] tanto che la comperai, e [...] la menai pur qui, sperando di tenerla celata o di far che si stesse volentieri meco e esser ben fornito per la lussuria (I, V).
Giuletta non è morta; infatti dopo essere stata catturata dai Mori 3, Satiro ci informa che «a stare in poppa misero lei, ma ne l'atto del morire fu messa un'altra in suo scambio» (V, II).
Si presenta lamentandosi e assumendo la parte della vittima-martire, che le consentirà vantaggi psicologici di ogni sorta:
Agatina (Giuletta). Oh che assassinamenti, oh che crudeltà son queste! E' possibile che in Roma non si truovi né misericordia né giustizia? In man di Turchi ho salvato l'onore e la persona mia, ed ora son forzata e martirizzata da' Cristiani? Oh Tindaro mio, dove sei tu? Oh, sapessi tu almeno dove sono io!
Procuratore. Che cosa è questa figliuola?
Agatina. Oh signor mio, per l'amor di Dio, non mi lasciate far sì disonesto torto.
Agatina. Da un Marabeo, can mastino, che abita in questa casa, dove m'ha tenuta tanti mesi per forza; e degli strazi che ha fatto de la mia persona, per espugnar la mia verginità e per venderla, ne possono in parte far fede questi ferri e queste battiture (IV, IV).
L'interesse di Marabeo per Giuletta scatena la gelosia furiosa, vendicativa e patetica — perché frustrata dalla giovane bellezza di Giuletta, rispetto a lei «robba» fresca — di Nuta, «la più indiziata nominalmente di calco boccaccesco, ma con supplementi di animosità veristica» 29, amante di Marabeo, serva in casa di Argentina.
Un altro esempio di conflittualità amorosa, questa volta giocata sullo specifico sessuale:
Marabeo. [...] Ma che vuol dir che la Nuta viene così infuriata?
Nuta. Ah traditoraccio poltrone! Perciò non volevi tu ch'io t'intrassi più in casa. Per questo, quando avevi le renelle, quando il fianco, e quando il canchero che ti venga!
Marabeo. Che cosa è questa, Nuta?
Nuta. Che cosa? ah manigoldo!
Marabeo. Ohi la barba! Ohi, ohi!
Nuta. Robba fresca volevi grimo porco! Ma ti putirà, ti so dire. Donne per forza, ah?
Marabeo. Che donne?
Nuta. Si sa ben, sì, vecchio lussurioso (I, IV) 30.
Quando infatti nell'ultimo atto il procuratore — deus ex machina permette lo scioglimento della vicenda con le consuete agnizioni, Giuletta esaspera il gioco «soffro per causa tua, e tu mi tradisci. Ti punirò amandoti per sempre». La defezione matrimoniale di Gisippo con Argentina, l'ha posta solo in apparenza nella condizione di frustrazione, in realtà trionfa, perché diventa ricattatoria sul piano sentimentale costringendo il partner a giocare «con le spalle al muro».
Giuletta si mette in contatto con Gisippo per mezzo di una lettera consegnata a Demetrio:
Giuletta. Tindaro, padron mio (così convien ch'io vi chiami, poiché mi truovo serva de' servitori de la vostra moglie), gli affanni ch'io ho sofferti fino a ora grandissimi e infiniti sono stati passati da me tutti con pazienza, sperando di ritrovarvi e consolandomi d'aver voi per mio consorte. Ma ora che finalmente v'ho ritrovato, poiché a me tolto vi sete, sconsolata e disperata per sempre desidero di morire.
Giuletta s'impegna in una lotta tenace dai toni drammatici, che mette alla prova l'abilità della donna innamorata che non s'arrende. Ha giocato il ruolo della vittima che accetta tutto perché sicura della riuscita; poi perentoria («mio marito [...] mi dovete esser per obbligo») passa al ricatto sentimentale in un crescendo di lamenti carichi di rimprovero e risentimento:
Giuletta. Ahi Tindaro, voi vi rimaritate. Or non sete voi mio marito? Se non mi sete ancor di letto e non volete essermi per amore, mi sete pur di fede, e mi dovete esser per obbligo. Non sono io quella che per esser vostra moglie non mi sono curata d'abbandonar la mia madre, né di andar dispersa da la mia patria né di venir favola del mondo?
Poi passa al gioco «è tutta colpa tua»:
Giuletta. Ricordatevi che per 31 voi sono stata a tante tempeste, per voi sono venuta in preda de' corsari, per voi si può dir che sia morta, per voi son venduta, per voi carcerata, per voi battuta.
Infine tenta di spiazzare quello che ora tratta da antagonista:
Giuletta. E per non venir donna d'altro uomo, come voi sete fatto uomo d'altra donna, in tante e sì dure fortune sono stata sempre d'animo costante, e di corpo sono ancor vergine. E voi non forzato, non venduto, non battuto, a vostro diletto vi rimaritate?
Invocando teatralmente la morte, interamente calata nel ruolo di vergine e martire, esprime le ultime volontà. Ritorna il motivo della preghiera, che se in Gisippo era una invocazione a una 'santa', qui è la richiesta di una donna che dietro una falsa umiltà e sottomissione gioca perentoriamente e lucidamente le ultime carte («[Argentina] la vostra sposa [...] così gentile»):
Giuletta. Io disegno di condurmi col testimonio della mia verginità a mostrare agli miei che io per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi. Per l'altra io vi prego (se più di un momento alcuno sono i miei preghi appresso di voi) che procuriate per me, poiché non posso morir donna vostra, ch'io non muoia almeno schiava d'altrui. O ricuperate con la giustizia, o impetrate de la vostra sposa la mia libertà, che per esser ella così gentile, come intendo, ve la doverà facilmente concedere, e bisognando promettete il prezzo ch'io sono stata comprata, ch'io prometto a voi di restituirvelo.
La conclusione della lettera è un capolavoro di astuzia, perché Gisippo, completamente spiazzato, diventi strumento del suo gioco, ed essa se ne assicuri il vantaggio:
Giuletta. E quando questo non vogliate fare, mi basterà solamente di morire: il che desidero così per finire la mia miseria come per non impedir la vostra ventura. E per segno ch'io non voglio pregiudicare a la libertà vostra, vi rimando l'anello del nostro maritaggio. Né per questo si scemerà punto de l'amor ch'io vi porto. State sano e godete de le nuove nozze. Di casa de la vostra moglie. Giuletta sfortunata (V, II).
Giuletta ottiene il suo scopo: Gisippo, 'balbettante' è in suo potere, e in preda all'emotività quasi incontrollata:
Gisippo. Ardo, tremo, mi meraviglio, non credo, m'allegro, mi contristo, mi vergogno [...] io non posso pensare ad altri che a lei [...] io non istò in cervello (V, II).
Con queste battute la coppia — ormai in una situazione strutturata, perciò fuori dall'economia della commedia — esce di scena: veniamo a sapere dal Procuratore, il quale scova parentele, scioglie tensioni, annoda vincoli sconosciuti, che finalmente i due se la godranno:
Procuratore. Giuletta e Tindaro si sono d'accordo moglie e marito e ve ne dovete contentare (V,V).
Il gioco di Gisippo, anche al di fuori dell'interazione con Giuletta, è lo stesso. Preda, suo malgrado, delle attenzioni di Argentina, esprime una passività che se con Giuletta era del tipo «non è colpa mia» adesso serve come sfondo psicologico, prima all'aggressività di Argentina, e poi a quella di Giordano suo marito. Gisippo è il jolly nell'economia di quest'altro «argomento» annunciato nel Prologo: «una nipote che [gli Straccioni] non sapevano d'avere a Roma». I suoi dialoghi sembrano quelli di un adulto affranto dal dolore, ma nel vivo del contesto si mostra incapace di affrontare la situazione; gli altri, abili calcolatori in mezzo ai quali egli sembra 'galleggiare', dietro 'saggi' consigli fanno di tutto per soffocare la sua volontà, e abusarne:
Barbagrigia. Messer Gisippo, io so che v'è stato parlato da altri di quel che vi voglio dire ora; e se ci arete ben pensato, spero che non mi partirò da voi senza conchiudere.
Gisippo. Che sarà pur? Moglie.
Barbagrigia. Che moglie? Moglie pigliano quelli che rompono il collo [...]
Barbagrigia. Per una morta dunque volete scontentar tanti vivi e far contra di voi medesimo?
Demetrio. Messer Gisippo, la nebbia de le passioni oscura il lume de la prudenza ancora ne' savi. Se questo non avvenisse ora in voi, non ordirei di consigliarmi in questo caso, sapendo di quanto gran sentimento sete in tutte le cose (II, I).
E' a questo punto (II, I) che Demetrio e Barbagrigia snocciolano alcune tesi sull'amore: il gioco è quello dei duri, inattaccabili da emozioni, ansie, cedimenti, tipici del comune innamoramento:
Demetrio. Lo dolore [...] è una alterazione a tempo de l'animo nostro [...] Il dolor passerà, che sarà passata l'occasione, e di qui nascerà un altro dolore che sarà il pentimento di non l'aver fatto.
Come a dire che il dolore sta nel non aver approfittato delle situazioni favorevoli.
Più complessa e cinica la teoria di Barbagrigia, che nella soddisfazione della sessualità vede la motivazione dell'incontro col partner:
Barbagrigia. Io ebbi un'altra moglie, che quando mi morì credetti di non dovermi mai più racconsolare, né che mai più si trovasse un'altra donna che m'andasse così a pelo. Ma non passò molto, che quel dolore mi calò nella schiena, e per guarirne andai a la volta de la mia Paolina, la quale ora stimo più cento volte di quella morta, e vogliole meglio assai. E se oggi mi morisse ancor ella, ne torrei domani un'altra, e crederei che m'avvenisse il medesimo».
Barbagia è la caricatura di Antonio Biado di Asolo, stampatore-libraio con bottega in Campo de' Fiori. Incarna il buonsenso e la capacità di accomodarsi alle circostanze esterne; non conosce i drammi del sentimento.
* * * *
Il diagramma iniziale prevede uno scambio tra Gisippo e Argentina e di conseguenza col marito di lei, Giordano, anche lui come Giuletta — visualizzando, è un vero chiasmo — miracolosamente scampato ai Mori:
Marabeo. Io strabilio. Oh, che cose son queste? Morti risuscitati, perduti, ritrovati ambedue prigioni di Mori, ambedue vengon di mare, dopo tanti anni, in un dì medesimo; e l'un non sa dell'altro.
Pilucca. Sicché '1 padrone è tornato? [...]
Marabeo. E' capitato qui ne la piazza Farnese, liberato, come egli dice, da le galere de la Religione. Non ha trovato la sua casa, e non volendo comparir così diserto come è venuto, ha preso per partito quell'altra porta in casa mia, finché si rimette in arnese (IV, I).
Argentina, cui ho già attribuito precise valenze psicologiche, non ha dubbi, gioca con determinazione e in tutta onestà: Gisippo, mite e passivo, è psicologicamente il partner adeguato. Compare in scena attraverso le parole di Barbagrigia:
Barbagrigia. Oh benedetta sia questa mia comare! Almanco la dice come la 'ntende, e 'ntendda benissimo secondo me. Poiché Pilucca afferma che '1 marito è morto, dice di volerne un altro e senza consiglio de' parenti, giovine, forestiero, e povero. E a le ragioni che assegna, mi pare una savia donna. E un gran pazzo mi parrebbe questo Gisippo, ch'ella dice d'aver già fatto tentare, se non la pigliasse [...] Non ha cattivo gusto la cornar no, un copertoro appunto da vedove (II, II).
Gisippo, obbligato da Barbagrigia e Demetrio, accetta il matrimonio:
Gisippo. Altro contento non ci arò mai la satisfazion vostra e la speranza d'averne presto a morire (II, I).
Quando le nozze vanno a monte per l'intervento perfido di Marabeo:
Marabeo. Commettiamo del male; diciamone al marito de la moglie, a la moglie del marito. Fingiamo qualche innamoramento, qualche adulterio d'uno di loro, qualche mal franzese di tutti due [...] Sai quello ch'io penso ora? Che noi facciamo zuffolar ne l'orecchio a questo Demetrio, che la vedova è pregna (II, III)
sappiamo da Barbagrigia che Argentina va su tutte le furie:
Barbagrigia. Va va, furia di donna! Vedova e innamorata, è come dir foco di salnitro, di carbone e di zolfo. Oh se queste nozze non si fanno stasera, il mondo ha da ritornare in caos [...] Male sta quella gentildonna, eh'è disperata e male arrivata per amor suo. Bisogna cavar le mani di queste nozze (III, IV).
Argentina è «potente», il suo sdegno «precipitoso»; più 'evoluta' di Giuletta per spirito d'intraprendenza e forza di carattere, è perfino trasgressiva: si sposa «senza consiglio de' parenti». Sfida le inibizioni sociali, ferma com'è nei suoi sentimenti. Di intelligenza pari a bellezza, gioca a volere tutto e subito, anche perché un marito le serve per difendersi dai servi— ladri. Ma della donna ha intatte certe peculiarità legate al decoro, quando scopre che Giordano è vivo:
Argentina. O Dio, in che pericolo e in che vergogna sono io. Quanto tempo l'ho aspettato, quanto l'ho fatto cercare, quanti riscontri ho avuti de la sua morte, e nondimeno sempre sono andata a rilento a rimaritarmi. E ora, per la certezza, che n'ha portata Pilucca, non mi sono prima rimaritata, che 1 marito ch'io ho preso non mi vuole, e quel ch'era morto è risuscitato. Dianzi ero vedova, ed ora son maritata a due, e di nessun d'essi son moglie. Che nuova e non più udita disgrazia è questa mia?
Ma non teme l'ira di Giordano, sapendosi in buona fede; per questo rifiuta di nascondersi:
Argentina. Questo non farò io, ch'io non ho fatto cosa ch'io debba temer di lui. E in questo caso, mi dà noia più la vergogna che la colpa (V, I).
Giordano e Argentina formano la coppia più aggressiva: anch'egli istintivo, riesce a scuotere Gisippo dal torpore offrendogli la possibilità di riscattarsi dal ruolo di amante piagnucoloso:
Barbagrigia. [...] Ora è in su le furie, ma mentre era a le mani con Gisippo e Gisippo era per ammazzar lui [...] (V, I).
E' geloso:
Giordano. So che queste nozze diventeranno questa sera un mortoro. Perché non lo veggo io ancora che me gli avventi addosso? Io gli aprirò pur il petto, li mangerò pur il core (IV, II). La rabbia mi si divora, fin che non mi sfogo nel suo sangue (V, IV).
Procuratore. Cavaliero, non si vuol essere così precipitoso a la morte degli uomini.
Giordano. Dunque volete voi che un gentiluomo mio pari, ne la sua patria, ne la sua casa, sofferisca d'esser offeso ne l'onor de la donna e de la persona sua stessa da uomini vili e forestieri, come son questi (V, IV).
E' furioso nell'innamoramento per Giuletta che ha incontrato, nascosta, in casa sua; e si meraviglia di provare odio e amore nello stesso tempo: in questa vitalità — al contrario di Gisippo — sta l'autenticità del personaggio:
Giordano. E com'è possibile che in un petto pieno di rabbia, e desideroso di vendetta, abbia potuto aver loco l'amore [...] Gran tirannia degli uomini è questa bellezza. Bella sopra modo e costante giovine è costei [...] Amor e crudeltà m'han posto assedio [...] Ho provato di lusingarla, di pregarla, di prometterle, di donarle; ho pianto, mi sono adirato, l'ho minacciata. Che non ho fatto? (IV, II).
E anche alla fine (V, V), quando il Procuratore definisce la situazione, in quello che Demetrio chiama «il giorno de le meraviglie», e Barbagrigia «del giudizio», Giordano continua il gioco dell'aggressivo a tutti i costi:
Giordano. Ecco qua quel traditor di Gisippo.
Procuratore. Cavalier, non vi movete, che voglio intender io questo caso. Messer Gisippo, venite qua.
Giordano. Gisippo, Gisippo!
Gisippo. Giordano, Giordano!
Procuratore. Cheti e senza collera [...] V'è caduto il cacio ne' maccheroni [...] Tindaro, e Giordano voi state così in cagnesco? Come non vi riconoscete voi? Voi vi sete pur fratelli!
I due, pur riconciliati, non abbandonano le loro posizioni: da una parte il passivo che fa appello alle ragioni del cuore, dall'altra l'aggressivo che punta sull'onore:
Gisippo. Cavaliero, io mi sento tutto non so in che modo intenerito. E l'animo mi dice che voi siete del mio sangue, sicché vi perdono la soperchiaria che m'avete fatta, e vogliovi per fratello.
Giordano. E io vi vorrei poter perdonare quella ch'avete fatta a me, ma l'ingiurie de l'onore non si smaltiscono così di leggieri [...] Dubito d'adulterio.
Gisippo. [...] Voi dovete credere a me, poiché vi sono fratello, che la vostra sia per mio conto incorrottissima.
Così come 'teatralmente' si conviene, stando ciascuno al suo posto («fermatevi tutti»), i giochi si concludono:
Procuratore. [...] Ecco la Giuletta. O qui ci sarebbe da far tutta la notte, se volessi aspettar che ognuno facesse la sua accoglienza e '1 suo sermone. Fermatevi tutti; voglio che facciamo un bel cibaldone d'ogni cosa. Cavaliero, madonna Argentina è vostra moglie ed è gentildonna onorata [...] Giuletta e Tindaro si sono d'accordo moglie e marito, e ve ne dovete contentare.
Con questo lavoro, che vuole essere una proposta di ricerca, ho cercato di mettere in evidenza alcune modalità di comunicazione letteraria tra uomo e donna. L'uomo prende l'iniziativa nella conversazione, la dirige e la interrompe, la controlla, anche se appare il contrario (Tindaro è un passivo, ma almeno parla in prima persona). Il diritto alla parola è privilegio maschile: Nuta dice qualche battuta, ma solo per inveire contro l'uomo traditore; Argentina per esprimere il pesante disagio dovuto alla gravità di ciò che stava per commettere (un matrimonio col primo marito ancora in vita); Giuletta, la protagonista, non parla proprio.
All'uomo è riservato l'uso di un linguaggio più diretto, violento e osceno, tale da esprimere conflitti e aggressività apertamente; alla donna un linguaggio indiretto, allusivo, soprattutto non scopertamente aggressivo, comunque riservato e cortese.
La scelta di un testo come gli Straccioni a conferma di certi stereotipi maschili e femminili, forse desta perplessità. Il contenuto paradigmatico della commedia, la sua collocazione storico-letteraria, la motivazione della composizione, estranea del tutto al mio tentativo di lettura, mi hanno guidato nella scelta, attraverso la quale ho ripercorso una verità che trascende il fatto letterario stesso: di come le donne, anche all'interno di una interazione amorosa con l'uomo, sono tagliate fuori «dalla pienezza degli aspetti relazionali della comunicazione» 32.
Maria Adelaide Caponigro
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