AnnibalCaro



Annibale e Fabio Caro, Priori della Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo di Montegranaro (1529 – 1579)


(Tratto da "Monte Granaro, storia dell'antica Terra di monte Granaro della Marca d'Ancona", Fermo 2007)

 

Nel 1529 (1), quando aveva solo 22 anni (2), Annibale Caro di Civitanova, secondogenito di un’agiata famiglia di mercanti ed allora precettore in casa della nobile famiglia Gaddi a Firenze, ebbe  il beneficio del pingue Priorato della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo di Monte Granaro.

Questi, ricorda il Raffaelli, non era prete, ma essendo Cavaliere e Commendatore del’Ordine Gerosolimitano, ebbe diritto di eleggere Cappellani, anche secolari, con cura d’anime (3).

In realtà non è proprio così che andarono le cose, perché il titolo di Cavaliere e Commendatore dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, come vedremo, gli fu concesso solo nel 1555, quando ormai da 6 anni non era più Priore a Montegranaro.

Il grande letterato, traduttore e primate degli epistolari del cinquecento, ebbe come bisnonna la montegranarese Porzia Zeno (4) che, maritata ad un Centofiorini, della nobile famiglia Civitanovese, fu madre di Ser Mariotto Centofiorini, Doctor juris, nato nel 1450, la figlia del quale Celanzia appena ventiquattrenne, nel 1504 sposò Giovambattista Caro, aromatario, nativo di S. Maria in Lapide di Montegallo che nel 1500, a trent’anni, si era trasferito a Civitanova, dove continuò ad esercitare il commercio di olio, aromi e di pannina.

Giovambattista e Celanzia ebbero quattro figli, Giovanni Battista (1505-1585), Annibale (6 giugno 1507-17 novembre 1566), Fabio (1512-2 aprile 1579) e Girolama (1515-…).

La bottega aromatica di Giovambattista Caro permise alla famiglia una vita agiata, tanto che Annibale già dal 1522 ebbe la possibilità di studiare al Liceum di Fermo (che oggi è a lui intitolato) (5).

Ma non è possibile, a mio giudizio, proseguire nell’argomentare sulla vita di Annibal Caro senza soffermarsi brevemente sulla casata dei Gaddi, importante e ricca famiglia di mercanti e banchieri  fiorentini, che indubbiamente costituì la chiave di volta nella carriera, e più in generale nella vita, del grande letterato.

Dopo di loro  anche i Farnese furono molto importanti per Annibale, con loro restò per un periodo molto più lungo (più o meno vent’anni, con diversi incarichi da parte di differenti membri della famiglia), ma in fondo furono i Gaddi, o i De Gaddis come si chiamavano allora, a “scoprirlo” ed a valorizzarlo.

Le origini dei Gaddi (almeno quelle conosciute) risalgono al duecento e nei secoli la famiglia fece contare molti pittori importanti, per tutti basti ricordare, nel XIV secolo, Gaddo dei Gaddi (1260-1333) ed il figlio Taddeo Gaddi (1300-1366).

Più volte poi, i suoi componenti furono chiamati alla carica di Priore di Firenze,  infine Zanobi (ossia Zenobio Gaddi) nel 1381 iniziò l’attività di banchiere.

Pochi anni dopo, nel 1397 Giovanni di Bicci de' Medici, fondò il Banco dei Medici dando così inizio all’attività bancaria anche in quella famiglia (poi preciserò perché cito anche i Medici).

Taddeo Gaddi (figlio di Agnolo, Priore della Repubblica di Firenze alla metà del XV secolo) nel 1486 sposò Antonia Altoviti e dal matrimonio  nacquero 8 figli, tre dei quali furono, più o meno, connessi alle vicende cariane e più esattamente il primogenito Luigi, Patrizio di Firenze, di professione banchiere, il quale fu Conte Palatino del Laterano e Signore di Riano.

Il secondo figlio Niccolò, nato nel 1490, che come vedremo fu Cardinale dal 1527, nonché Vescovo Eletto di Fermo dal 1521 al 1549 e morì a Firenze nel 1552 ed infine il terzo figlio, Giovanni, alto prelato pontificio, bibliofilo ed erudito, morto a Roma il 19 ottobre 1542, che fu indubbiamente quello più vicino alle vicende del nostro Annibale.

I Gaddi, già ben introdotti negli ambienti della Camera apostolica romana fin dal quattrocento, avevano ottenuto ulteriori privilegi durante i pontificati dei Medici e segnatamente di Leone X (1513-1521)  e di Clemente VII (1523- 1534).

In quegli anni il fratello primogenito di Niccolò, Luigi, dalla famiglia destinato agli affari,  oltre che a Firenze, aveva creato una sorta di filiale del “Banco Gaddi” anche a Roma, impegnandosi man mano in operazioni finanziarie sempre più importanti con la Curia pontificia.

Luigi, col tempo, divenne uno dei principali finanziatori della politica dapprima di Leone X, per il quale tenne la Tesoreria della Marca d’Ancona dal 1515 al 1523, e successivamente di Clemente VII, contribuendo ad esempio, nel 1526 con ingenti prestiti alle spese della spedizione contro i Turchi.

La proficua attività finanziaria di Luigi contribuì notevolmente a consolidare la posizione economica e sociale della famiglia e a porre le basi per la brillante carriera ecclesiastica dei fratelli Niccolò e Giovanni.

Niccolò giunse a Roma probabilmente quando aveva solo 19 anni, intorno al 1509, mentre  fra il 1518 e il 1519 figura come chierico di camera di Leone X.

Nominato nel 1521 dal medesimo pontefice vescovo di Fermo, nel 1526, per i servigi – soprattutto finanziari – resi alla Chiesa, fu elevato alla porpora cardinalizia da Clemente VII.

La storica dell’arte Maria Letizia Papini (6) ci testimonia che un documento conservato nell’Archivio Vaticano e datato 13 febbraio 1520 attesta la donazione di un terreno a Roma, avvenuta già da qualche tempo, da parte di Leone X, a Niccolò Gaddi, Bartolomeo Della Valle e Raimondo Capodiferro.

Non si conosce se Monsignor Niccolò iniziasse subito la costruzione del prestigioso palazzo che la famiglia possedeva nel rione Ponte (attualmente di proprietà Inail), palazzo commissionato dal fratello Luigi all’architetto fiorentino Jacopo Sansovino, il quale era legato alla famiglia Gaddi da vincoli di amicizia, avendo in precedenza lavorato anche per il fratello Giovanni, quello con cui Annibal Caro ebbe senza dubbio più intensi rapporti di lavoro, di stima e d’amicizia.

Di Giovanni Gaddi, fratello minore di Luigi e Niccolò, già avviato alla carriera ecclesiastica (fu poi chierico di camera e pronotario pontificio), sulle frequentazioni avute fin dalla giovinezza con diversi artisti, quali il pittore Andrea Vannucchi, detto Andrea del Sarto ed il surriferito Iacopo Sansovino, nonché con l’ambiente dei collezionisti fiorentini, è data notizia nelle Vite del Vasari.

Sempre dal Vasari apprendiamo che Giovanni acquistò diverse sculture antiche oggi conservate agli Uffizi, e che la sua raccolta d’arte comprendeva un disegno di Leonardo da Vinci, raffigurante Nettuno.

Alcune lettere a Michelangelo (1475-1564), testimoniano inoltre l’interesse culturale del Gaddi e lasciano anche supporre una frequentazione di quest’artista durante il suo soggiorno romano.

La competenza artistica e il gusto raffinato di Monsignor Giovanni contribuirono a procurargli compiti prestigiosi anche nella carriera ecclesiastica come, ad esempio, la designazione pontificia a disporre gli apparati per una degna accoglienza a Roma dell’Imperatore Carlo V.

Ben presto l’abitazione romana della famiglia Gaddi nel Rione Ponte, nella quale Giovanni aveva costituito anche una cospicua biblioteca, nel decennio 1532-42, divenne luogo d’incontro e di riunione di una vasta cerchia di letterati ed umanisti, che annoverava cultori e studiosi dei classici, quali appunto Annibal Caro e  poeti berneschi, come il Franzesi e il Boni.

In particolare il nostro Annibale, come vedremo, mantenne con Monsignor Giovanni Gaddi anche veri e propri rapporti di lavoro, visto che per anni fu uno dei suoi segretari e persona di fiducia.

E si vede che il monsignore fu soddisfatto dell’opera del marchigiano, perché dopo di lui anche il fratello Fabio per qualche tempo svolse il medesimo incarico.

La residenza romana dei Gaddi finì dunque per costituire quasi un punto di riferimento obbligato per i fiorentini e i toscani di passaggio a Roma, soprattutto se artisti e letterati;  tra questi vi furono Benvenuto Cellini (vedasi la Vita scritta dal medesimo), Pietro Aretino, Benedetto Varchi ed il citato Jacopo Sansovino.

Diversi artisti impegnati nelle committenze pontificie figuravano, inoltre, fra i clienti del banco romano dei Gaddi; lo stesso  Michelangelo, nel periodo in cui era dedito alla realizzazione della sagrestia della Chiesa di S. Lorenzo in Firenze, ricevette da Clemente VII i pagamenti attraverso il banco dei Gaddi.

Similmente ai Gaddi, anche i Medici furono banchieri nonché curatori degli interessi finanziari della Curia romana, a cui appaltavano le entrate delle decime papali, un mercato ricchissimo.

I  Gaddi, furono in strettissimo contatto con la cerchia dei cardinali della famiglia  Medici e quindi, ovviamente, con i due loro pontefici.

Avere due papi dal pontificato abbastanza lungo e in un arco di tempo così ravvicinato, fu il fattore che permise, sia ai Medici che agli stessi Gaddi, il salto di qualità, permettendo loro di passare da cittadini maggiorenti a nobili veri e propri.

I Medici risultarono dunque grandi protettori dei Gaddi, che a loro volta furono cofinanziatori, col loro banco ed unitamente al banco di famiglia, dei due pontefici Medicei Leone X e Clemente VII.

Chiarito chi fossero i Gaddi  ricorderò che Annibale Caro, ricevette la sua iniziale formazione umanistica, a Civitanova, e che, come accennato in precedenza,  già dal 1522 il giovane civitanovese ebbe la possibilità di studiare al Liceum di Fermo (7), avendo come maestro di grammatica Rodolfo Iracinti (Iracinto), Rodulphus Iracinctus, mons Rubiani (di Monterubbiano e non di Teramo come leggesi erroneamente) (8).

In quel tempo, ricopriva la dignità di Vescovo di Fermo quel già menzionato Cardinal Niccolò Gaddi, il quale, anticipavo in precedenza, ebbe poi la stola cardinalizia da Clemente VII. 

E’ ragionevole nonché verosimile presumere che il giovane studente sia stato presentato al Vescovo, che ebbe così modo di conoscere il diciottenne Civitanovese e, riconosciutegli rilevanti doti e buona preparazione umanistica, nel 1525 lo volle  precettore del nipote Lorenzo Lenzi, di otto anni, e lo inviò a Firenze, dal fratello primogenito Luigi, che come  s’è detto, era banchiere e Conte Palatino (9).

Così Annibale, il quale si vide con l’occasione assegnata una piccola rendita da parte del padre, si trasferì a Firenze dove poi rimase circa cinque anni (10).

Lorenzo Lenzi, nato nel 1517,  fu poi a sua volta vescovo di Fermo, ma non risulta ricevesse mai la dignità cardinalizia, mentre nel 1555 fu, invece, vice legato del cardinale Carlo Carafa al governo di Bologna, nel 1557 Nunzio papale a Parigi e nel 1562 vicelegato d'Avignone (11).

E’ verosimile affermare che il diciottenne precettore del giovane Lorenzo conobbe allora Giovanni Gaddi, fratello minore del Vescovo di Fermo, ed i due si legarono con sentimenti di reciproca stima.

Mentre il giovane marchigiano svolgeva il suo incarico giunse a Firenze la notizia dell’invasione di Roma da parte di trentamila uomini dell’Imperatore Carlo V, tra i quali  dodicimila mercenari lanzichenecchi, che a partire dal maggio 1527 e per quasi nove mesi, misero letteralmente a sacco la città eterna.

Nel 1528, stroncato dalla peste, che dall’Italia settentrionale si era propagata nel mezzogiorno andando specialmente a desolare Roma, morì a Civitanova il padre Giovambattista.

Cosa inaudita per quei tempi, la moglie Celanzia Centofiorini, un anno dopo la scomparsa del marito,  ossia verso la fine della primavera del 1529, si risposò con Vincenzo di Ser Gaspare Stabili di Fermo, andandosene da Civitanova e trasferendosi nella città del Girone. Non si conosce la data e il luogo della sua morte, che comunque sicuramente non avvenne a Civitanova (12).

Pare che la donna nel 1529, dopo quel suo secondo ed indecoroso matrimonio, abbandonasse i figli dimostrandosi madre snaturata, e che a tal motivo sia stata ripudiata da questi ultimi nonché dalla famiglia Centofiorini (13).

Prova ne sia, scrive il Concetti, il fatto che in nessuna delle lettere di Annibale sia mai stato menzionato il nome della madre (14).

La frequentazione e la stima della famiglia fiorentina dei Gaddi consentirono intanto che ad Annibale, nel 1529 circa, mentr’era ancora precettore nella loro casa di Firenze, fosse

intanto assegnato il ricco beneficio della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo di Montegranaro, col titolo di Priore titolare dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, oggi sovrano Ordine di Malta (15).

La data d’assegnazione del beneficio al Caro (1529) può essere fissata con buona approssimazione a seguito di un’asserzione rilevabile in una lettera che il Poeta Civitanovese, mentre si trovava a Roma, scrisse  a Macerata al menzionato Mattio Franzesi, il quale come lui era stato uno dei segretari del protonotario pontificio Giovanni Gaddi (dal 1533), ma che nel 1537 era poi passato al servizio del Vescovo di Fossombrone nonché Commissario Pontificio e Vicario nella Marca d’Ancona, Nicolò Ardinghelli, che a sua volta, in precedenza, era stato segretario dei Farnese e quindi Cardinale dal 1544 ad opera di Paolo III Farnese (16) .

In una lettera datata 4 maggio 1539, sulla quale avremo modo di soffermarci più volte,  il Priore Caro affermava letteralmente “…Sono degli anni presso che dieci che Monsignor mio mi dette il Beneficio di Montegranaro …”. Tale asserzione, oltre a fornirci un dato preciso sull’epoca d’inizio del priorato (appunto il 1529 circa), ci fa presumere anche da chi il celebre civitanovese avesse ricevuto tale dignità.

E’ genericamente riconosciuto che siano stati proprio i Marchesi Gaddi di Riano a fargli ottenere il priorato dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme e l’annesso ricco beneficio.

Si può dunque presumere che il “Monsignor mio” a cui  si riferisce  nel passo della lettera, altri non fosse se non Monsignor Giovanni Gaddi, fratello del Vescovo di Fermo Cardinal  Nicolò Gaddi, che appunto, verosimilmente, gli fece avere tale  titolo e beneficio (17).

Non  mi risulta infatti che la Priorale dei SS. Filippo e Giacomo, officiata prima dai benedettini di Farfa, poi dai Silvestrini, quindi dal 1287 dagli Eremitiani di S. Agostino, sia mai uscita dalla giurisdizione del vescovo di Fermo.

La chiesa attuale, ricordo, fu quasi completamente ricostruita nel 1760, da Don Ciro Leti, allargando la chiesa “cariana”, sino a piantare le mura su quelle della chiesa vecchia, ossia su quelle della sottostante Cripta di S. Ugo. La chiesa del Priore Caro era dunque di dimensioni inferiori a quella giunta sino a noi.

Per quanto riguarda lo stemma in pietra esistente tuttora sopra la porta della canonica, è mia convinzione che non sia coevo al priorato del poeta civitanovese, ma che sia stato apposto dopo la metà del ’700, quando la chiesa e la canonica furono praticamente ricostruite. 

Stemma di Annibal Caro posto sopra l'ingresso della prioria dei SS Filippo e Giacomo a Montegranaro (Foto di Sergio Fucchi)
(Foto di Sergio Fucchi)

Ritornando ora a questioni di carattere più generale, preciso che il fatto che Annibale avesse ricevuto il Priorato di Montegranaro, è anche confermato da lui stesso in una lettera datata 3 luglio 1540, indirizzata al Comune Granariense nella quale scrive testualmente:   “Per risposta d'una lettera, che le SS. VV. mi scrivono sopra la causa delle primizie, io dico che l'animo mio è stato sempre, da che io ebbi il Priorato e la conversazione della vostra Terra, di voler essere buon figliolo della Comunità…”

L’anno successivo alla concessione del beneficio, dunque nel 1530, attenuatisi nell’Urbe lo sgomento e la desolazione seguiti al barbaro Sacco dei lanzichenecchi, Monsignor Giovanni Gaddi, avendo ricevuto dal fiorentino Papa Clemente VII dei Medici la nomina a Protonotario Apostolico e di Chierico della Camera Apostolica, portò con se a Roma il giovane civitanovese  con l’incarico di segretario (18).

Annibal Caro, rimase da allora a Roma, alle dipendenze di monsignor Gaddi, dal 1529 al 1542, salvo alcuni brevi periodi (19).

E a quello che successe a Roma, ai grandi personaggi incontrati nella casa di quel mecenate che fu Monsignor Giovanni Gaddi,  s’è accennato in precedenza.

Una volta avuto il beneficio di Montegranaro, Annibal Caro, seppure fosse di costumi piuttosto pagani, come d'altronde tutti i letterati del tempo, assolse tuttavia molto scrupolosamente il suo compito di priore, anche se i suoi numerosi impegni lo tennero costantemente lontano da Monte Granaro, in cui verosimilmente soggiornò molto sporadicamente, tanto che, scrive don Recchi,  con Atto del 27 febbraio 1534 rogato a Civitanova nella chiesa del SS. Sacramento dal Notaio Cenzo Centofiorini, affittò per un triennio tutte le rendite del beneficio (20).

Venuto in paese a visitare le proprietà del beneficio medesimo, nella menzionata lettera del maggio 1539, tra l’altro scrisse letteralmente:

“Sono degli anni presso che dieci che Monsignor mio mi dette il Beneficio di Montegranaro, il quale per esser stato innanzi a lui in mano di Rettori negligenti, e a suo tempo di Procuratori tristi, trovai tutto in rovina.

Tantoché la prima volta ch'io lo vidi, me ne vergognai. E quello ch'io abbia speso per rimetterlo in assetto lo sa tutta quella terra ……”.

Accortosi dunque che, per negligenza o imperizia, quanti avevano amministrato il beneficio in precedenza, appunto definiti Rettori negligenti e Procuratori tristi, avevano trascurato l’enorme patrimonio parrocchiale, che di conseguenza le proprietà erano “…tutte in pezzi…” e che certi confinanti si erano indebitamente appropriati di alcuni appezzamenti di terreno appartenenti alla Prioria e addirittura di paramenti sacri, per prima cosa si adoperò attivamente perché tutto fosse restituito alla parrocchia e, visto che con i mezzi della bonaria persuasione non era possibile difendere tali diritti, non esitò a  ricorrere alle aule di giustizia con ingiunzioni, esecuzioni forzate, pignoramenti ed in generale sfruttando la sua grande preparazione e conoscenza delle procedure giudiziali, nonché le sue notevolissime conoscenze nell’ambiente pontificio.

Nella medesima lettera il letterato racconta ad esempio anche di una gran bega  avuta a motivo di un terreno (bega cominciata nel 1533 circa) con un certo Cecco di Denno di Monte Granaro e tutte le peripezie fatte per tentare di rientrarne in possesso chiedendo infine, di essere aiutato a “…liberarsi da tal briga…”. Segue il testo della lettera (21):

"Annibal Caro a M. Mattio Francesi, a Macerata.

Voi mi faceste una gran ressa alla vostra partita, perch'io vi scrivessi, e non sapevate che non avrei potuto far di meno, avendo più bisogno di voi che il tignoso(come si suol dire) del cappello. E se intendete che uno vi scriva quando lo fa per suo conto, e quando vi dà delle brighe, non vi potete già lamentare che io non vi ubbidisca. E se questa non sarà una lettera, per una volta, non voglia. Vorrei bene che la leggeste tutta, almeno ogni dì un poco, che mi pare così vedervi gittarla via subito che intendete che l'argomento d'essa è una lite. Or udite. Debbono esser da sei o sette anni, che un brigante di quei fini ha tolto a litigar meco a credenza, e viene alla volta mia molto arditamente: credo perché si sia avveduto che in questi casi io sono stato insino ad ora un cacapensiero. Ma io mi sono risoluto che non m'abbia più per tale. Ed ora che Monsignor vostro è costà, ho preso la lite a denti; e se credessi spender me medesimo, voglio che si termini, per non aver più questo fradiciume intorno.

E per non rompere il capo a Monsignore se non quando bisogna, ho scritto a S. Signoria d'ogn'altra cosa, che di questa. Ed a Voi mando così minuta informazione, perché possiate con essa informare a tempo S. Signoria, ed altri, secondo che bisognerà. Avvertendovi ch'è necessario ch'io ve ne faccia così lunga cantafavola, perché ho da far con una lappola (22) che s'appicca ad ogni cosa. E solamente ch'egli vi parli, vi parrà ch'io abbia tutti i torti del mondo. E vi prometterà, e griderà, e metteravvi  procuratori, e vi farà tanti anderivieni  intorno,  che v'intratterrà,  o vi darà ad intendere ch'io l'abbia assassinato. Imperò con sopportazione delle vostre orecchie, ve lo conterò infino dall'avo.

Sono degli anni presso che dieci che Monsignor mio mi dette il Beneficio di Montegranaro, il quale per esser stato innanzi a lui in mano de' Rettori negligenti, e a suo tempo di Procuratori tristi, trovai tutto in rovina. Tantoché la prima volta ch'io lo vidi, me ne vergognai. E quello ch'io m'abbia speso per rimetterlo in assetto lo sa tutta quella terra e voi stesso ve ne potete informare.

Fra l'altre cose trovai che chi s'avea preso un pezzo di terra, chi un cottimo, chi gli ornamenti della Chiesa, e chi una cosa, e chi un'altra. Tra i quali mi fu riferito che Ceccho di Denno, ora mio avversario, mi teneva un certo terreno occupato dal padre di molti anni, e che tutta la Terra (di Monte Granaro) se ne scandalizzava; non potendo non risentirmene, per onor mio feci prima ogni diligenza per non litigar seco, al quale mestiero io sono andato sempre come la biscia all'incanto. Lo pregai, e fecilo pregare, che me lo restituisse, che io non mi sarei curato poi de'frutti di tanti anni passati. Egli con buone parole, e con promettermi di mostrare ch'egli lo teneva per virtù d'un contracambio fatto con la Chiesa, m'intertenne intorno a due anni. All'ultimo, conoscendo la ragia, gli mossi lite all'Ordinario, il quale è il Vescovo di Fermo; dove dopo molti e molti termini concedutigli dal Giudice e difensioni fatte da lui, mi fu sentenziato in favore. Ma quando procurava per l'esecuzione, il buon santino mi fece non so che tresca a Macerata, e d'appelli e citazioni a Civitanova quando io era a Roma, che mi mise ogni cosa in confusione, ancora che, secondo intendo, non si potesse appellare. Fui consigliato di commetter la causa all'Auditore della Camera, inibire a Macerata, e citarlo a Roma. Fecilo; non rispose. Procedei per via di contradetto; gli cavai il mandato esecutivo. Venni costaggiù (che fu a tempo di Ravenna e della….) per eseguirlo, e dopo ricercati amorevolmente, lo feci pignorare in certi buoi. Egli era in quel tempo intrattenuto dalla…., per farlo cedere ad una lite, ch'egli aveva col Ciappardello tanto, eh 'egli fece un favore a (…). E per questo gli Avvocati, i Procuratori, e tutta cotesta Corte congiurò a farmi un torto, che non s'udì più; d'impedirmi un mandato esecutivo di Roma, fecemi restituire l'esecuzione de' buoi, e sei altre ingiustizie. Di poi tornando il medesimo in disgrazia de' superiori, mi fu concessa l'esecuzione contro la persona tanto che, dopo molto fuggire, e nasconder se e le sue robe con isvaligiargli la casa mi rivalsi delle spese fatte a Roma, ed ultimamente per instanchezza venne meco ad accordo. Nel quale potendo io per vigor del mandato fargli di molto male, mi contentai che solamente per mio onore mi rendesse il terreno, e si terminasse in modo che per esser io confine agli altri suoi terreni, non lo potesse più molestare.

Gli lasciai tutti i frutti delle olive di molti anni e del grano. Essendo condannato in ventisette some a tempo che valeva un occhio la soma, non ne volli più che some dieci e quelle mi diede poi fracide. Restommi solamente obbligato alle spese, che s'erano fatte a Fermo la prima istanza, secondochè dal Vicario sarebbero tassate. E di più per mostrare ch'io non aveva litigato per avere del suo, mi obbligai in casa che si trovasse mai che il terreno litigato fosse suo o per compera o per contracambio fatto con la Chiesa, che io lo restituirei con tutte le sue appartenenze.

Questa mia liberalità fu molto sciocca e impertinente, usandola con un suo pari, potendo sbagliar questo intrigo allora che egli aveva le mani nei capelli per sempre. Ma non pensando che fosse tanto ignorante che non conoscesse il beneficio ch'io gli facea, la governai come udito. Rientrai allora in possessione del terreno, ed hollo (lo ho) posseduto, e, per non rimescolar più questa materia, non lo molestava del resto delle spese che mi doveva della prima istanza di Fermo. Ma egli che è un uomo inqueto e ancor deve avere poco cervello secondo ch'io posso considerare, ha preso di nuovo a travagliarmi prima ne' confini, di poi con dire che il terreno è suo, e di costaggiù procede più pazzamente del mondo. Io veggendo questo, non gli ho voluto aver più rispetto ed ho fatto tassare le spese di Fermo, come si vede per la dichiarazione del Vicario. E venendo egli a Roma gli feci fare un comandamento dal Governatore che non partisse che me le pagasse, e che non ordinasse di rimettere i confini al luogo loro. Egli non istimando tal precetto si partì da Roma, e contuttociò per odio delle liti, e per carestia di tempo non gli procedei altramente contra.

Ora di nuovo ha rotto i confini con dire che quello che occupa di più è suo; ma poi ch'è stato convinto per esami di testimoni, è tornato a ridire ch'è suo ancora tutto il terreno.

E produce un contratto che fa menzione di non so che terra, che tanto ha da fare con questa che si litiga quanto il Gennaio con le More. E sa tanto bene ciurmare che incorrendo in contumacia, in pene, turbando possessioni, e facendo di forza, la ragion glie ne comporta. Gli è creduto ogni cosa, e fa ciò che vuole. Infino ad ora l’ho tollerato per trascurataggine, e per le molte occupazioni; adesso non posso più. E non voglio questa senaggine addosso se io credessi che me ne avvenisse anco peggio. La prima cosa voglio che mi paghi le spese di Fermo. E per questo vi sarà un altro mandato esecutivo del Governatore di Roma, come vedrete. Di poi gli farò procedere alla pena degli scudi cento dal Fisco, per non aver ubbidito al precetto di non partirsi di Roma; e poiché vuole da grattare, gli darò della rogna. Ora io vorrei che voi foste con Monsignore perché mi favorisse in tanta giustizia, commettendo l'esecuzione del mandato, secondo che dal mio Procuratore gli sarà mostro (mostrato) esser di ragione. E perché fa un gran bravare con quel contratto che mostra, avvertiste che quel medesimo ha prodotto più volte ed a Fermo ed a Macerata e sopra d'esso gli sono state date tutte le sentenze contra. E quando pur fosse quel ch'egli dice, l'avrebbe a mostrar qui e non altrove. Di più vorrei che Monsignor trovasse qualche via (la quale io non so) di porre in questa causa perpetuo silenzio; e che bisognando mandasse nel luogo un Commissario ad esaminar sopra i confini, e secondo che vien riferito, così facesse terminare per modo che non possa mai più dimenarsi. Di grazia pregatelo che mi faccia questo favore, di liberarmi una volta per sempre di questa briga, che mi sarà tanto caro, quanto m'è la quiete dell'animo; la quale da nessun'altra cosa m'è così turbata, come da quella bagatella. Io vi dò questa commissione mal volentieri, perché so che v'è contra stomaco come a me;  ma per uscir da questo tormento un tratto, son forzato; ed anco voi per manco di fastidio non potete far meglio che farmela terminare mandovi la... ecc. ecc. Di Roma a li 4 di maggio 1539".

I rapporti del Priore civitanovese col Comune granariense non dovettero essere sempre idilliaci, come può rilevarsi da una lettera del luglio dell’anno successivo (1540), che ce ne fa presumere il deterioramento.

Nella missiva, diretta alle autorità cittadine di Monte Granaro, si apprende infatti, che, oltre ai privati, anche il Comune si era appropriato di un terreno situato a S. Maria (allora una delle contrade ed oggi quartiere montegranarese), terreno che quella Municipalità non voleva restituire affermando che la parte di ricavato di propria spettanza (primizie in genere, soprattutto frutta e verdure), lo dispensava già ai poveri.

Il Priore Caro, com’era solito fare, promosse allora causa a quella Municipalità che, ad un certo punto, gli indirizzò una lettera alla quale il Civitanovese rispose appunto nel luglio del 1540, spiegando di “aver mosso lite(23) a motivo del fatto che il suo incarico lo obbligava a recuperare tutte proprietà parrocchiali, anche perché era suo desiderio quello di restaurare la Chiesa, come aveva già cominciato a fare, con gran dispendio di mezzi economici (24).

Visto che il Comune diceva di distribuire la sua parte di raccolto (di primizie) a beneficio dei poveri, il Priore Caro dichiarò che, una volta trovata l’intesa, quella Municipalità avrebbe potuto, a suo piacimento, dispensare  anche le primizie spettanti alla chiesa, purché  prima il terreno fosse stato riconosciuto come proprietà sua nonché dei suoi successori e dunque della Chiesa.

Oltre a ciò il Priore scrisse che era sua intenzione di concedere ancora più del richiesto e che, d’altra parte, se fosse andata avanti nei vari tribunali, la causa si sarebbe conclusa a suo favore.

Tuttavia, ad evitare ulteriori spese,  ed anche per chiudere quella contesa, se in buona concordia quella Municipalità avesse voluto cedere, rinunciando ad opporsi e riconoscendo quella parte di  S. Maria come proprietà della Parrocchia, lui prometteva, e addirittura già da allora concedeva, che la Comunità ne avesse disposto durante tutta la sua vita. E per il tempo successivo avrebbe fatto in modo, con qualche consenso di Roma, di assicurarle tale diritto in perpetuo. In tal modo, diceva “… si salverà l'onor mio, e la Comunità farà sua giurisdizione quello che ora di diritto è della mia Chiesa…”.

In questa lettera, si legge anche il famoso passo riferito alla collettività granariense, definita  “…cotesta magnifica Comunità, la quale amo a par della mia Patria…”, rilevandosi anche la circostanza che nel 1540 s’era appunto iniziato il restauro della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, con gran dispendio di mezzi economici, anche perché il Priore Caro aveva alle sue dipendenze molti cappellani, che comportavano notevoli spese per cera ed altro. Scriveva infatti:

“… per desiderio ch'io tengo di riordinare la Chiesa, e di restaurarla di fabbriche e di culto divino, come ognuno vede ch'io ho cominciato con molto dispendio… che avendo io spesa di tanti Cappellani, di tanta cera, e di tante altre cose, e la Cura dell'anime, de' Sagramenti, e delle Sepolture della più parte della Terra…”.

Infatti la giurisdizione della Parrocchia dei Santi Filippo e Giacomo si estendeva sulla gran parte del territorio montegranarese, essendo il restante amministrato dalla Pievania del SS. Salvatore ed in minima parte dalla piccola parrocchia di San Pietro, che comprendeva solo 15-20 case patrizie.

Questo il testo dell’anzidetta lettera:

"Per risposta d'una lettera, che le SS. VV. mi scrivono sopra la causa delle primizie, io dico che l'animo mio è stato sempre, da che io ebbi il Priorato, e la conversazione della vostra Terra, di voler essere buon figliolo della Comunità, e minor amorevole fratello de' particolari d'essa. E infino ad ora mi sono sforzato di metter in pratica questa mia buona  intenzione in tutte le cose che io ho potuto, e tutte le volte che dal pubblico e da qualunque privato ne sono stato ricerco. E così penso e desidero di fare per l'avvenire. E se io ho suscitato ora questa lite delle Primizie, non è stato per avarizia, né per leggerezza, né per voler dispiacere, né far danno né alla Comunità, né a quelli che le posseggono di presente, ma perché la Cura ch'io tengo della Chiesa mi obbliga per coscienza a ricercare e recuperare le sue giurisdizioni; perché la ragione e l'onor mio ci spinge, e perché la più parte di voi medesimi me n'ha più volte ricerco, e pregato ch'io lo faccia: mostrandomi ancor ch'io ne farei cosa grata all’universale, e facendone fede ciascuno di propria mano.

Oltre di questo mi ci son messo volentieri per desiderio ch'io tengo di riordinare la Chiesa, e di restaurarla di fabbriche e di culto divino, come ognuno vede ch'io ho cominciato con molto dispendio; la qual cosa torna non meno in ornamento e comodità della Terra vostra, che in soddisfazione e scarico dell'animo mio, sendo (essendo) massimamente cosa tanto ingiusta e tanto fuori dall'universale consuetudine che avendo io spesa di tanti Cappellani, di tanta cera, e di tante altre cose, e la Cura dell'anime, de' Sagramenti, e delle Sepolture della più parte della Terra, i miei propri Parrocchiani paghino la ricognizione alle altre Chiese, che non né hanno né cura, né spesa alcuna. Ho dunque mossa la lite per tutte queste ragioni; e nondimeno l'intento mio è stato, ed è di non pregiudicare alla Comunità. Considerando, come le SS. VV. dicono, che la sua parte si dispensa in benefizio dei poveri, e ora tanto più che da Voi ne sono amorevolmente ricerco, io sono contentissimo che tutto quello che per la parte di S. Maria venisse alla mia Chiesa si dispensi ad arbitrio d'essa Comunità. Ma non si può già fare con onore, né con buona coscienza mia, se prima non riconosco questa giurisdizione per cosa della mia Chiesa, né de' miei successori. E quando bene il concedessi, non sarebbe né valido, né a proposito della Comunità, restando in arbitrio di un altro che venga dopo di me di ricercar le medesime ragioni. Imperò (tuttavia) contentandosi le SS. VV. in questa parte all’onor mio, io penso di concedervi ancor più che non demandate, in questo modo. Hanno le SS. VV. a tener per conto che seguendosi la Causa si terminerà in favor mio, ma per non far più spesa né venire a questi cimenti con la Comunità, se di buona concordia vuol cedere e riconoscer questa parte di  S. Maria per cosa di S. Filippo, io prometto, e per insino da ora concedo, che la Comunità ne disponga durante la mia vita. E per il tempo avvenire farò una concessione con qualche consenso di Roma, per la quale se ne potrà assicurare in perpetuo. E così si salverà l'onor mio, e la Comunità farà sua giurisdizione quello che ora di ragione è della mia Chiesa. E lo farò volentieri, compiacendone cotesta magnifica Comunità, la quale amo a par della mia Patria, e passerà con iscarico mio, perché vengo a cedere in sovvenzione dei poveri. E non solamente in questa, ma in ogni altra cosa che io possa, le SS. VV. hanno a dispor di me come d'obbediente figliolo, e per tale mi proffero, e raccomando loro con tutto il cuore.

Di Roma, a li 3 luglio 1540".

Annibal Caro, dunque, energicamente ed efficacemente riorganizzò la vasta parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo e, appurata quale fosse la sua esatta giurisdizione, volle rientrare in possesso dei terreni usurpati e di quant’altro illecitamente sottratto.

Preparato, risoluto, molto ben introdotto nell’ambiente Pontificio e Cardinalizio (coi Medici e coi Farnese), potremo dire che il Priore Civitanovese “non guardava in faccia a nessuno” e non era assolutamente il tipo rilasciarsi intimorire in nessun modo.

Lo Stato in cui operava era d’altronde proprio quello della Chiesa e la Provincia d’appartenenza quella della Marca d’Ancona che, a sua volta, era governata da un Legato, chiamato poi Governatore Pontificio.

Grande ammirazione il Caro ebbe per Giovanni Guidiccioni, prelato, diplomatico, poeta colto e raffinato ammirato da molte figure letterarie del suo tempo, originario di Lucca, rinomato lirico, Vescovo di Fossombrone e Governatore di Roma (1534), Presidente della Romagna (dall’agosto 1537), morto  a Macerata nel 1541, per il quale lavorò come segretario, per un certo periodo tra il 1537 ed il 1539 quando appunto era Legato in Romagna (25).

La terza ed ultima lettera il cui testo era riportato nel libro di memorie della chiesa dei SS. Filippo e Giacomo, è infine indirizzata al suddetto Monsignor Guidiccioni e fu scritta il 20 novembre 1540 una delle poche volte che il letterato si trovava a Monte Granaro, “…come un romito che sta nel deserto…”, espressione questa comprensibile per un personaggio della sua statura, abituato alla mondanità ed alle comodità della città, che  drammatizzava addirittura le condizioni di vita facendo intendere l’uso di “pentolini e pagliericci”. Questo un brano del testo:

"Sono già molti giorni ecc.

Io mi trovo ora a Monte Granaro, a un mio beneficio, come un Romito che sta nel deserto, sperando quando che sia di veder la faccia di Dio; e frattanto avendo delle tentazioni e delle tribolazioni del mondo, attendo visione e rivelazione di quell'altra vita, che lo rinfranchi nella fede, e lo consoli nell'avversità.

Sicché se V.S. non mi manda l'Angelo mio a darmi qualche lume di Lei è facil cosa ch'io lasci l'eremo, e corra via. Il tentatore (per non uscir della metafora) non cessa d'istigarmi e di far ogni prova ch'io ritorni, ma io temporeggio, e sono risoluto di godermi interamente il libero arbitrio che S.Signoria m'ha già conceduto per un anno.

Da quello in là non so che sarà di me. Intanto mi contenterei assai del mio pentolino e del mio pagliericcio, se l'esser lontano da lei, a non sentirne nuova non mi fosse cagione di molto dispiacere. Prego ecc.

Di Monte Granaro, a li 20 novembre 1540".

Come curiosità si può rilevare il fatto che San Serafino da Montegranaro fu sicuramente battezzato, nel 1540 circa, da uno dei suoi cappellani quando nella chiesa dei SS. Filippo e Giacomo del luogo era  Priore  Annibal Caro.

Visto poi che il 20 novembre 1540 il Poeta Civitanovese era sicuramente in paese, la coincidenza sarebbe ancor più interessante se si ipotizzasse il battesimo di Felice di Girolamo Piampiani (del fu Nicola da Rapagnano) proprio come avvenuto in quei giorni.

Dopo la morte del Guidiccioni, verificatasi nel 1541, e la scomparsa di Monsignor Gaddi,  avvenuta nel 1542, il nostro Annibale si ritrovò improvvisamente ad aver perso ambedue i suoi “datori di lavoro”.

Ma il suo nome era ormai molto conosciuto nell’ambiente ecclesiastico e pontificio, ed il civitanovese nel 1543, sotto il pontificato di Paolo III Farnese, passò come segretario al servizio del figlio Pier Luigi Farnese, duca di Castro (26).

Il 17 agosto 1545 Paolo III (col consenso di Carlo V), erigeva il Ducato di Parma e Piacenza in favore del figlio Pier Luigi, del nipote Ottavio e dei loro discendenti maschi e legittimi per ordine di primogenitura ed il Caro seguì naturalmente il suo Duca, che  si disinteressò completamente di Castro, tutto preso dal nuovo e più importante Ducato.

Nel settembre del 1547, a seguito dell’assassinio (per sgozzamento) di Pier Luigi Farnese a seguito di una congiura di stampo ghibellino da parte dei Gonzaga, Annibale rimase temporaneamente al servizio del figlio Ottavio, suo successore sul trono ducale, per passare dopo pochi mesi, al servizio del fratello Alessandro Farnese, detto il Gran Cardinale, presso cui restò poi in qualità di segretario dal 1548 al 1563, ricevendone grandi onori e prestigiosi incarichi, quali diverse missioni diplomatiche, nonché lunghi soggiorni un Francia  (luglio 1552- agosto 1554) alla corte di Enrico II.

Nel frattempo,  il fratello Fabio, più giovane di cinque anni, divenuto sacerdote, per qualche anno era stato anch’esso segretario del Gaddi a Roma e quando Mons.Lorenzo Lenzi Vescovo di Fermo andò Francia per la S. Sede, Don Fabio si recò con lui a prestargli la sua assistenza (27).

Per tutto questo tempo Annibal Caro, ormai quarantaduenne, aveva mantenuto il Priorato ed il beneficio di Montegranaro quando nel gennaio del 1549, resosi ormai conto che i nuovi gravosi impegni non gli avrebbero più consentito di mantenere tale incarico e desiderando dare degna sistemazione al fratello minore, decise di lasciarlo.

Il 12 febbraio 1549 infatti, con atto del Notaio Ludovico Conventati di Monte Granaro, ovviamente rogato in presenza di Fabio ed Annibal Caro e ancora conservato nel locale archivio storico, il Commendatore rinunciò, seppur con riserva di regresso, al Priorato a favore del fratello Fabio, “Reverendus Fabius Carus Presbyter de Civitatae Nova, Firmanae Diocesis(28).

E forse, non si pentì mai abbastanza di averlo fatto, in quanto Don Fabio, al contrario di Annibale, sebbene fosse prete, creò diversi problemi e il fratello maggiore lo ribadì in diverse lettere.

Il Priorato montegranarese di Annibale durò dunque circa 20 anni, dal 1529 al 1549.

Uno storico dei Caro afferma che Don Fabio, subentrato al fratello, da allora realizzò importanti innovazioni nella parrocchia, la più significativa delle quali, secondo Don Recchi, fu quella, da allora in avanti,  di scrivere e catalogare in un registro, gli atti dei battesimi, cosa questa che non si praticava a Monte Granaro (29).

In realtà non fu proprio così che andarono le cose, giacché il libro dei battesimi fu iniziato da uno dei suoi cappellani, quando Annibale era ancora Priore, esattamente il 20 maggio 1548, come si legge nell’antichissimo volume:

1548- Al nome de Idio e de la Sanctissima vergine, p.re figlio e spiritu s.to.

Jo fra Calisto Mancino de monte Granaro, fanno metion (si fa qui menzione) de tutti batisimj che se fanno ne la chiesa di San Filippo e se scriverà il nome di quelli e quelle e li nomi de li coparj (compari di battesimo) pregando i dio me dia la salute dell’anima e la bona Gratia, (scritto) a li vintj de maggio nel sopraditto millenni (30)”.

Don Caro, in ogni modo, portò avanti tale innovazione per cresime, matrimoni e  morti, così che le notizie potessero essere conservate a perpetua memoria.

Poco paziente, di carattere forte, istintivo e piuttosto intollerante, il nuovo Priore fu sempre sotto una sorta di controllo e tutela da parte del fratello Annibale, che ne parla in almeno una ventina di lettere, facendo trasparire le vicende non sempre tranquille che caratterizzarono la vita del sacerdote (31).

Così il 10 maggio 1550 Annibal Caro scrisse al Comune di Monte Granaro onde precisare che Fabio Caro era in possesso dei documenti riguardanti il beneficio del Priorato della chiesa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo del luogo, Priorato dallo stesso prima esercitato e quindi trasferito al fratello (32).

Nel 1551 Annibal Caro entrò a far parte del Collegio dei Cavalieri Lauretani, “Collegii Militum Lauretanorum…”, istituito da Paolo III nel 1534 sotto l'invocazione della SS. Vergine di Loreto a difesa della santa Casa di Loreto contro i Saraceni.

Tornato a Roma dalla Francia nell’agosto del 1554, poté finalmente dedicarsi con più comodità ai suoi studi, alla sue ricerche archeologiche, alle sue collezioni numismatiche ed agli interessi artistici.

Erano quelli i tempi dei contrasti tra le due fazioni, l’una guelfa formata oltre che dal papa, da Francia, Venezia, Parma e Ferrara e l’altra ghibellina formata da SpagnaGenova, dai Medici, dai Gonzaga e dall’Imperatore.

Annibal Caro, evidentemente schierato dalla parte guelfa scrisse la canzone “Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro” dedicata alla monarchia di Francia, ricevendone nel 1553 una netta stroncatura da parte del letterato modenese di parte avversa Ludovico Castelvetro, già nei guai  col Sant’Uffizio per le sue posizioni non ortodosse.

Tra i due letterati nacque così un’aspra querelle che s’inserì nella lotta tra anti-francesi ed anti-imperiali.

In questo quadro il Caro compose L'Apologia degli accademici di Banchi di Roma, edita a Parma, da Viotti nel 1558 (fu l’unica sua opera pubblicata mentre era in vita), con la quale difese risolutamente sé stesso e la sua opera.

Nell'inasprirsi della disputa, il letterato, Alberico Longo, assertore delle tesi del Caro, fu ucciso nell’anno 1555 e il Caro riuscì a volgere a suo favore la situazione addirittura accusando il Castelvetro di aver commissionato quell’omicidio.

Per i meriti guadagnatisi, il Cardinale Alessandro Farnese, nel medesimo anno 1555, gli dette anche quella commenda da lui ripetutamente sollecitata per il prestigio sociale ed i vantaggi economici che essa comportava, facendogli ottenere  il  titolo di Cavaliere di Grazia e di Commendatore  dell' Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme.

La Commenda affidata fu quella dei SS. Giovanni e Vittore in Selva appartenente all'ordine gerosolimitano e situata a circa 16 chilometri da Montefiascone.

Il Caro ne prese subito possesso ma, mentre il “Gran Cardinale” se ne stava a Parma presso la corte ducale del fratello Ottavio, gli giunsero notizie su disordini e violenze ai quali gli abitanti di Montefiascone si erano lasciati andare per rivendicare i terreni della Commenda assegnata al suo segretario personale (33).

I Montefiasconesi infatti, rivendicavano quel territorio come loro, volevano cacciare e ricavarne legna a loro piacimento, minacciando, in caso contrario, di dar fuoco ai boschi.

Il Cardinal Farnese si rivolse allora al Vicelegato pontificio di Viterbo, arcivescovo Maffeo, al quale il 20 aprile 1557 scrisse, specificando meticolosamente i suoi titoli di proprietà: Vostra Signoria deve sapere che la commenda di San Giovanni e della quale è di presente Commendatore il Caro, gli è stata conferita da me... come per essere stata di Papa Paolo, santa memoria, e del Signor Ascanio Santa Fiore per sua rinunzia, ed ora del detto Caro rinunziata da me...”. Si rivolse quindi direttamente agli abitanti di Montefiascone, per rimproverarli e ammonirli:  “Io son certo che sapete meglio di me i privilegi e l’immunità della Commenda San Giovanni... del tutto appartata dal territorio e da ogni vostro affare...” e ancora “...la Commenda è stata conferita al Commendatore Caro da me …..e che per esser stata di Papa Paolo, di Santa memoria, e de’ miei tanto tempo, quanto sapete, io la reputo mia più che mai”.

Queste lettere, tuttavia, non ottennero un gran risultato e il conflitto tra il Cardinale e la comunità di Montefiascone si trascinò per molti anni, tant’è che ancora il 5 Ottobre del 1564 il “commendatore” Annibal Caro in una lettera al Card. Ranuccio Farnese, fratello del card. Alessandro, riferisce con preoccupazione che “gli uomini di Montefiascone” sono ancora sul piede di guerra e “fanno professione di far violenza alle cose della Commenda” al punto che vi cacciano senza autorizzazione e una volta gli fecero addirittura sbranare le capre dai loro cani, e che “… insomma ne vogliono essere i padroni essi…e perché non lo volemo consentire, ci fanno di queste avanie”.

In sostanza, incuranti di moniti e recriminazioni e indifferenti ai diritti della proprietà legittima, gli abitanti di Montefiascone continuarono ad usare a loro piacere della “Commenda”, minacciando per di più, e molte volte, il povero Annibal Caro al quale non risparmiarono dispetti e insolenze di ogni genere.

Non si conosce la fine della vertenza, ma è facile immaginare che il commendator Annibal Caro e il Card. Alessandro Farnese dovettero infine rassegnarsi alle “prepotenze” dei montefiasconesi (34).

Dopo la Commenda ed il Cavalierato, il poeta Civitanovese  era ormai divenuto un personaggio, e lo stampatore veneziano Paolo Manuzio (1512-1574) lo intuì al punto di chiedergli ripetutamente di pubblicare per i suoi tipi il suo epistolario.

Il Caro approntò una selezione di lettere,  contenente circa la metà dell’epistolario, che tuttavia venne pubblicata postuma in due volumi a Venezia nel 1573 e nel 1575, a cura dei nipoti Giovan Battista e Lepido Caro (35).

Si era intanto delineata, negli anni immediatamente successivi all’affidamento della Commenda, la possibilità o la necessità che il Priorato di Monte Granaro fosse tolto a Don Fabio Caro, tant’è che il 26 aprile 1558 Annibale aveva scritto a Monsignor Pier da Gagliano a Roma onde far presente che il fratello Fabio aveva sostenuto spese molto rilevanti per bestiame ed altro, cose queste che necessitavano alla Commenda di Monte Granaro e che quindi, almeno per il momento, non c’era la possibilità di farlo ritirare dal beneficio (36).

Dopo un inutile tentativo nel 1559  di processare il Castelvetro per eresia, l’anno successivo il letterato si presentò spontaneamente al Sant’Uffizio di Roma ma, avuta la certezza della sua condanna per eresia, fuggì all’estero con l’aiuto del fratello.

Nel 1560 fu emessa la sentenza di condanna a morte in contumacia nonché la confisca dei beni. Fu un trionfo per il nostro Annibale.

Il Castelvetro, si allontanò da Roma e poi dall’Italia (Ferrara, Chiavenna, poi Ginevra). Dopo la sconfitta dell’avversario, Annibal Caro si ritrovò all’apice del successo, ma nel contempo anche logoro ed amareggiato.

Col passare degli anni, gli ottimi rapporti col cardinale Alessandro si erano deteriorati ed il Caro avvertiva che tutta un’epoca stava ormai tramontando.

Aveva intanto acquistato un terreno dall'Abbazia di Grottaferrata (che si era riservata un canone annuo di quattro scudi) alle porte di Frascati e presso i resti di quella che riteneva essere stata la villa di Lucullo, si era fatto costruire la sua nuova dimora, chiamata “Villa Piscina”, la "Caravilla", attuale Villa Torlonia di Frascati.

Intanto nell’agosto del 1560, a distanza di 15 giorni, il Commendatore Caro scrisse due lettere al ventiseienne nipote Giambattista, sacerdote, secondo figlio  del fratello Giovanni Battista, che allora era a Roma.

Nella prima, datata 8 agosto, gli raccomandò di ritornare a Civitanova allo scopo di riferire allo zio Fabio che era molto indispettito e contrariato sull’andamento della Commenda di Monte Granaro, non di suo totale gradimento, e nell’altra datata 23 si diceva stanco delle stranezze del fratello, al quale intendeva togliere il Priorato di Monte Granaro, visto che minacciava di ripudiare la famiglia Caro (37).

Il letterato, durante la sua brillante carriera, viaggiò molto, fissando dimore in diverse parti d’Italia ed anche all’estero, e fu proprietario, oltre alla villetta a Frascati, di altre due case, rispettivamente a Roma ed a Civitanova Alta.

Si sa, infatti, che egli aveva anche una casa a Roma, non distante dal Palazzo abitato dai Farnese, situata in “in Platea Aureae, seu Via Julia…” (38), o come scrisse in un atto il Notaio Pellicani, “…in Via Julia juxta bona Ill.mi D.ni de Odescalchis…”(38), vicino a palazzo Odescalchi (edificio appunto ivi innalzato nel XVI secolo e conservato integro fino al 1638, quando Orazio Falconieri lo acquistò dai Farnese che a loro volta lo avevano rilevato nel 1606) o ancora come più esattamente di lui espone il Notaio Massicci ”…in Regione Stratae Julia juxta tiberim retro, stratam ante, bona D.nae Camillae Rosignolae ad uno latere, et bona Ill.mi D.ni de Odescalchis ab alio…”(38/1).

La “Strada Giulia”, voluta da Papa Giulio II che prese il suo nome, fu descritta da Annibal Caro come un luogo equivoco, “…dove si mescolano ladri, prostitute, artigiani, nobili, mercanti, religiosi e popolino….” e, tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, vi era stato costruito un palazzo, voluto dal cardinale Alessandro Farnese.

Quella strada assunse col tempo il carattere di rappresentanza delle attività finanziarie che si svolgevano nella vicina “zona dei Banchi”, ossia delle “Banche” o dei “Banchieri”, attività riguardo alle quali bisogna ricordare il banco Gaddi ed il Banco Medici,  famiglie queste che furono finanziatrici della Curia romana, nonché strettamente legate ad Annibal Caro (38/2).

Nella sua città natale invece, il Caro, oltre a godere a del beneficio dei beni del Priorato di S. Pietro extra muros, come proprietà indivisa insieme ai fratelli, possedeva nel quartiere di Porta Girone una bottega aromataria, un forno, unum  casalenum, una stalla, una casa con orto, cisterna e colombaia, un terreno a Fonte di latte, un altro a Monticello, due a fonte Rocchia, due a fonte Martina, vari altri poderi in contrada Ciacciarina e appunto la casa di abitazione, con orto, cortile e cisterna, a porta S. Paolo di Civitanova Alta (39).

Nel 1563, ormai stanco e con condizioni fisiche compromesse, a causa della podagra, chiese ed ottenne dal suo Cardinale di ritirarsi a vita privata in modo che, libero da impegni, si fosse potuto dedicare completamente ai suoi dilettissimi studi onde portare a termine la traduzione dell'Eneide.

Sin dal maggio del 1563, il desiderio di quiete lo indusse pertanto a trasferirsi stabilmente nella sua "Caravilla", per dedicarsi al suo amato lavoro e dove passò l'ultima parte della sua vita.

Per tre anni, si impegnò nel riordino delle sue opere e si dedicò alla traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio, quasi una preparazione a quel poema che avrebbe voluto creare e che non scrisse mai.

La podagra tuttavia, allora gravissima patologia reumatica, poi chiamata gotta, portatrice di gravissime infermità e dolori atroci, gli rese la vita impossibile, nonostante cercasse di alleviarne i dolori con fichi ammolliti nel latte e di ridurre le ulcere podagrose con frizioni di olio di merluzzo.

La malattia degenerò sempre più fino al punto che, rimasto completamente immobilizzato, fu costretto, per curarsi, a far ritorno a Roma, dove era più facile ricorrere ai “cerusici”.

Il 17 novembre 1566 morì pertanto nella sua casa di Roma (che per testamento lasciò a Fabio il quale la detenne sino alla morte, conservandovi religiosamente tutte le sue memorie) e i suoi resti riposano nella chiesa San Lorenzo in Damaso, dove è posta una lapide fatta collocare dai Farnese ed una dai fratelli Giovanni Battista e Fabio su cui è scritto “IOANNES ET FABIUS CARI/ FRATI OPTIMO/ IOANNES BATTISTA IOANNIS F./ PATRUO BENEMERENTI/ POSUIT /OBIIT XV. CAL. DECEMBRIS M.DLXVI”.

La villa, venduta nel 1579 dagli eredi, passò a vari proprietari e subì molti rimaneggiamenti ed ampliamenti sino ad arrivare nel possesso dei Torlonia nel 1814.

Durante l’ultima guerra mondiale la “Caravilla” fu gravemente danneggiata dai bombardamenti e la odierna “Villa Torlonia” di Frascati non ha nulla che vedere con quella “cariana”, se non che sorge nel medesimo luogo di allora, mentre il parco divenne pubblico dal 1954.

Don Fabio Caro, nonostante le stranezze e le difficoltà, anche dopo la scomparsa del fratello mantenne la dignità di Priore a Monte Granaro ancora per più di 12 anni, ossia sino alla morte, avvenuta a Roma il 2 aprile 1579 e, per testamento, fatto con atto del Notaio Girolamo Centofiorini il 9 dicembre 1531, lasciò eredi in parti uguali la sorella Girolama e l’Ospedale di Civitanova (40).

Don Recchi, e di seguito il Concetti, ci fanno presumere che sia stato sepolto anche lui a S. Lorenzo in Damaso, precisando il primo dei due che “..gravò gli eredi di 4 sole messe in perpetuo da celebrarsi nell’anniversario della sua morte in S. Lorenzo in Damaso, ove i Caro erano sepoltuari…” (41).

 

In realtà, sentito a Roma il Parroco di S. Lorenzo in Damaso,  Don Valerio Nardo (Prefetto II Prefettura), non risulta esistere o essere esistita una sepoltura a nome di Fabio Caro nelle otto pagine di nominativi del relativo elenco in suo possesso.

 

Ma  Annibale e Fabio non furono gli unici di quella illustre famiglia a venire in contatto con le vicende montegranaresi, in quanto in un atto del Notaio Simone Bartoli datato 30 giugno 1573,  si legge che Lepido Caro, anche lui sacerdote e nipote del Commendatore, ebbe il Priorato di S. Pietro in Civitanova già goduto dallo zio Annibale e che fu Rettore del beneficio di S. Matteo di Monte Granaro, come si legge in un ulteriore atto datato 2 ottobre 1573 (42).

 

Daniele Malvestiti


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