Via Annibal Caro
(Tratto da "Il Nuovo Piceno" del 24 settembre 1955)
Il grande scrittore cinquecentesco era oriundo di Montegallo — La famosa canzone dei "Gigli d'oro" — Feroce contesa letteraria col Castelvetro —
A Montegallo "tutti zappano la terra e guardano le capre" — Ieri e oggi
E quella che, in proseguimento di via dei Soderini, avendo la chiesa di S. Giacomo a sinistra e alcune case del Quattro-Cinquecento a destra, s'inoltra verso Porta Romana restringendosi man mano e diventando sempre più umile e dimessa, fino ad assumere l'aspetto di un viottolo di campagna.
Prima dell'ampio ritocco ai nomi delle vie e delle piazze avvenuto nel 1889, si chiamava del Corvo, e fu la commissione composta da Giorgio Paci, Giuseppe Castelli e Giulio Cantalamessa a sostituire il volatile col grande scrittore cinquecentesco. Forse perché era egli nato nella graziosa cittadina di Civitanova, in provincia di Macerata, non lontana quindi da Ascoli? No, ma per il fatto che proprio in quegli anni un sagace ed erudito sacerdote, Don Giuseppe Recchi, aveva confermato, su fonti archivistiche, che il padre del traduttore dell'Eneide era oriundo di Montegallo. Era uomo ricco di terre e danaro guadagnato onestamente con la professione di aromatario: può anche supporsi che non fosse ignorante e plebeo, perché è dimostrato da autorevoli documenti come egli salisse nel patrio Comune alle più alte dignità.
Come e perché questo Giambattista Caro si stabilisca a Civitanova, dove appunto nacque il poeta, non è dato sapere. Ma resta certa la sua provenienza da Montegallo.
Il futuro traduttore dell'Eneide nasceva dunque a Civitanova il 6 giugno del 1507. Di grande ingegno fu, può dirsi, un autodidatta, e seppe formarsi una solida cultura in condizioni sfavorevoli, stretto com'era dalle angustie finanziarie, fuori dello splendore e del rumore degli atenei famosi, lontano dalle biblioteche, senza il pungolo dell'emulazione e dell'esempio.
Non è mio compito seguirlo passo passo nella via ascensionale che lo condusse tanto in alto, né ripetere quanto può trovarsi in ogni manuale di letteratura sulla posizione che occupa tra i grandi del Cinquecento; intendo invece rievocare un clamoroso episodio di cui fu protagonista. Nel 1553 egli compose, per incarico del Card. Alessandro Farnese, una canzone di 112 versi, infarcita di allegorie e di allusioni mitologiche, in lode della casa dei Valois, che si era imparentata con la corte Farnesiana. Comincia così: Venite all'ombra de gran gigli d'oro, e fece addirittura furore. Si disse tra l'altro che anche Francesco Petrarca, dopo questa canzone, poteva andare a farsi benedire. Ciò dette ai nervi ai nemici e agli emuli del poeta, e uno di essi, Lodovico Castelvetro di Modena, fece sulla canzone dei "gigli d'oro" una critica sottile e astiosa, la quale a sua volta, suscitò un Commento entusiasta, che da alcuni fu attribuito allo stesso Caro.
La contesa letteraria in cui, spento ogni nobile ardimento di restaurazione politica, gli uomini si gingillavano in quisquilie accademiche e grammaticali, degenerò con aperte animosità personali per tutta la penisola. Lo scrittore piceno, che aveva dalla sua Benedetto Varchi, dette alle stampe per insinuazione di costui l'Apologia della canzone, deve si ammirano alcuni passi criticamente sagaci insieme ad altri di una satira efficacissima. Il Varchi poi, giunse di rincalzo con il suo Ercolano, o dialogo delle lingue, nel quale difende a spada tratta il Caro, ponendolo su di un piedestallo di intangibilità come nessuno aveva sino allora osato. Altri si schierarono a fianco o contro il nostro poeta e l'animosità giunse a tal punto che ci uscì un morto: il salentino Alberico Longo che si disse essere stato ucciso per mano di sicari mandati dal Castelvetro. Il quale, caduto in sospetto di eresia, credette opportuno tagliare la corda e si rifugiò nella repubblica dei Grigioni, dove finì i suoi giorni nel 1571. Naturalmente, durante l'aspra contesa, furono presi di mira gli umili natali del Caro. Udite ciò che scriveva di lui il Castelvetro: "Egli ha una patria paterna da vergognarsi qual è, il dirò pure non ne potendo fare altro benché mal volentieri, San Maria Gallo nella Marca, dove tutti gli abitanti zappano la terra o guardano le capre". Oggi queste accuse fanno semplicemente ridere; allora costituivano un'offesa atroce. Due secoli dopo il Muratori, tessendo la vita del Castelvetro, molto assennatamente concludeva che le lettere e le scienze debbono servire "non già per renderci la nostra sorte più penosa nel mondo ma per farci felici, o meno infelici, su la terra".
Via Annibal Caro... A Modena, sicuramente, vi sarà un'altra via intitolata a Lodovico Castelvetro. Due uomini che si azzuffarono per 112 versi e tutta la penisola seguì avidamente le fasi della lunga ed aspra contesa che si svolse senza esclusione di colpi.
Oggi gli italiani non si appassionano più per certe quisquilie. Maiora premunt. Dall'Alpe al Lilibeo s'interessano tutti dell'affare Montesi, delle figlie del secolo, delle ragazze-squillo, della dama bianca, degli scandali di Sotgiu, della decapitata di Castelgandolfo. Siamo più intelligenti e più... puliti, non vi pare?
O tempora, o mores.
Don Giuseppe Fabiani
Pubblichiamo questo scritto su segnalazione di Franco Laganà, Presidente della Fondazione Don Giuseppe Fabiani, nata nel 2001 al termine delle celebrazioni per il 1° Centenario della nascita dell'illustre storico ed educatore ascolano.
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