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Annibale Caro e la comunità di Civitanova.


di Raimondo Giustozzi

 

Anche la gente comune va scoprendo un lato del carattere del figlio più illustre di Civitanova Marche che era sconosciuto ai più. Annibale Caro non è solo il traduttore dell’Eneide, ma autore di divertenti lettere scritte ai Familiari: parenti, amici, conoscenti, uomini illustri del suo tempo. Alcune di esse riguardano i contatti continui avuti con la Comunità di Civitanova.

Giunto all’apice della sua fortuna letteraria, ben inserito presso la Corte di Pier Luigi Farnese, profondo conoscitore della Curia Romana, usò tutto il suo ingegno per sollevare la sua patria da tasse e gabelle d’ogni genere, sia quando questa era governata  direttamente da Roma con un suo Commissario, poi quando il Papa la diede in feudo al Duca Giuliano Cesarini. Spulciando tra le lettere che riguardano direttamente le cose civitanovesi, si viene a conoscenza di alcuni suoi fiduciari con i quali era in profonda sintonia: ser Maro, ser Cenzio, e ser Masseo, tutti di Civitanova.

In una lettera datata 2 dicembre 1538, indirizzata a messer Vanni Lelio, ricorda “la fatica che io ho durata tre giorni continui per la spedizione della nostra Comunità”. La Comunità di Civitanova era stata liberata per opera del Caro dal pagamento di un tributo alla Camera Apostolica.

Il Caro aveva convinto il cardinale Giandomenico de Cupis a scrivere una lettera da inoltrare a Bernardino Tempestini di Montefalco, vescovo di Montepeloso e vicelegato della Marca, perché usasse i suoi buoni uffici verso il Commissario. Affatto convinto che questa lettera  bastasse per chiedere il favore, Annibal Caro si era adoperato perché fosse coinvolto nell’operazione anche il tesoriere, Mario Favonio di Spoleto, che in seguito si prese cura di comporre “le dissenzioni ed i civili tumulti” di Civitanova. Nel prosieguo della lettera scritta a messer Vanni Lelio, il Caro aggiunge: “Se la lettera del Cardinale non giova, non avrete come meglio rimediare che con unger le mani al Commissario, poiché il mondo si governa oggi per questa via”.

Così andava il mondo alla metà del 1500, ma per un certo verso va così anche oggi. “Nihil sub sole novi”. Non c’è niente di nuovo alla luce del sole. La raccomandazione, i buoni uffici messi in atto da chi conta e comanda!. C’è sempre un “Deus qui nobis haec otia fecit”. Basta il titolo di studio, il merito acquisito sul campo, per aver accesso al lavoro come ad un diritto o serve anche qualche cosa d’altro? Essere “allineati e coperti” dal potente di turno? Ognuno può rispondere liberamente.

Non bastava tuttavia che Annibal Caro avesse brigato per due anni continui per liberare la Comunità di Civitanova dal pagamento del tributo, come ebbe a scrivere lui stesso in un’altra lettera indirizzata al Cardinal Michele de Silva di Macerata, ambasciatore del Re del Portogallo presso il Pontefice e nel 1546 Legato nella Marca. Annibal Caro infatti venne calunniato da alcuni suoi stessi concittadini che lo avevano accusato di frode fiscale.  Nella lettera inoltrata al Cardinale, Annibal Caro supplica Sua Eccellenza Reverendissima di informarsi sulla sua reputazione e su quella dei suoi calunniatori, offrendosi di chiarire a voce quello che non può mettere per iscritto.

In una lunga lettera del maggio 1546 indirizzata alla Comunità di Civitanova Annibal Caro manifesta tutto il proprio dispiacere “de la calunnia che nuovamente m’è stata data appresso a le Signorie Vostre, vedendo da un canto, ch’io son perseguitato, e ripreso di quello che debbo esser lodato, e riconosciuto”. È sicuro comunque di aver fatto sempre il proprio dovere e di poter andare a testa alta: “in ogni caso mi risolvo che a me basti d’essere quel ch’io sono, e d’aver sempre cercato di fare, e fatto con effetto tutto quello che ho potuto a beneficio de la mia patria, cosa notissima ad ognuno… Sono imputato che, per avervi fatto sgravare in Camera Apostolica di 200 scudi l’anno, io abbia frodata la Comunità di due annate”. Annibal Caro ricorda come più volte lui aveva manifestato tutte le difficoltà dell’impresa: “la prima cosa, voi vi dovete ricordare che più volte m’avete scritto ch’io dovessi entrare in questa impresa, e che io da prima ve lo disdissi, e vi feci intendere le difficoltà, e quasi l’impossibilità di condurla. Mi replicaste, più volte, mandaste a Roma prima ser Maro, di poi ser Cenzio, a l’ultimo Masseo con ambasciata, e con ordine risoluto che io non guardassi di spendere tre o quattro annate, se bisognava, perché vi togliessi a qualche tempo da dosso quel peso insopportabile… Dio sa con quante pratiche, con quante fatiche, e con quanto obbligo co’ padroni, e con quanto disturbo degli amici, che per servirvi ci ho speso tutto quel favore, e tutto quel credito che ho potuto mai acquistare in quindici anni in quella Corte”. La Corte a cui fa riferimento il Caro è sempre quella dei Farnese di cui era dipendente. I calunniatori sostenevano che i duecento scudi fatti risparmiare alla Comunità civitanovese li avrebbe intascati lui stesso. Questo non è vero, precisa il Caro, ma aggiunge anche:  “quando ben fosse, come sono di tanta sfrenata passione, di tanto corrotto giudizio, e di sì dissoluta lingua, che lo chiamino furto? Essendo di vostra saputa, di vostra volontà, cosa offerta, ed ordinata pubblicamente da voi, e per mercede di tante fatiche che si so messe ad ottenerla, e per ricompensa del grande utile che ve ne risulta? Perché ne fanno costoro tanto rumore, ancora che fosse? Ma io vi replico, che non è vero”.

Per i servizi resi alla Comunità, la stessa dispensò il Caro e la sua casa “di tutte le gravezze pubbliche, fino alla terza generazione”. In una parola venne liberato dal pagamento delle imposte. Ma se questo era visto da alcuni come un privilegio e se la cosa poteva essere motivo di disordine o di una “nuova ruggine in Civitanova”, si dichiarava pronto ad eliminare ogni occasione di scandalo augurandosi che gli venisse revocato “rimettendosi all’arbitrio” della Comunità stessa. Incaricava il fratello Giovanni, che risiedeva a Civitanova, “di portare con gli altri, tutti quei pesi che gli saranno imposti. Solo vi priego a non voler sopportar che un vostro amorevol cittadino, sia così lacerato  innocentemente, e disonorato in questo negozio per avervi servito. Che facendolo, come buon figliuolo che vi sono, con tutto che me ne venga persecuzione, mi ingegnerò d’obbedirvi, e di giovarvi sempre quanto io posso”.

Bella la dichiarazione di sottomissione alla volontà popolare che era poi quella di pochi potentati civitanovesi.

Civitanova Marche, 23 novembre 2007.

 

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