Alessandro Farnese juniore e la Commenda di Montefiascone per Annibal Caro.
(Articolo già pubblicato on-line dall'autrice il 28 luglio 2006 nel sito Canino.info)
Mentre il Card. Alessandro Farnese juniore si trovava a Parma presso la corte di suo fratello, il Duca Ottavio Farnese, e sua figlia Clelia iniziava a fare i primi passi, dal Ducato di Castro giunsero notizie relative a disordini e prepotenze fatte dalla comunità di Montefiascone che avanzava pretese sul territorio della Commenda di San Giovanni, confinante con Montefiascone.
Alessandro juniore decise quindi d’inviare il 20 aprile 1557 un ammonimento alla comunità, iniziando con lo scrivere all’Arcivescovo Maffeo, Vicelegato di Viterbo, nella speranza di ottenere un aiuto concreto: « Vostra Signoria deve sapere che la commenda di San Giovanni e della quale è di presente Commendatore il Caro, gli è stata conferita da me... come per essere stata di Papa Paolo, santa memoria, e del Signor Ascanio Santa Fiore per sua rinunzia, ed ora del detto Caro rinunziata da me [...] »..
Dal testo della lettera si evince che la Commenda era stata lasciata in gestione al suo segretario e amico Annibal Caro, che diventerà famoso per aver tradotto tra il 1563 e il 1566 l’Eneide e per aver suggerito insieme a Fulvio Orsini, bibliotecario di Palazzo Farnese a Roma, l’iconografia utilizzata negli affreschi del Palazzo di Caprarola.
Il Card. Alessandro juniore prosegue dicendo: « [...] disegnano di far non so che innovazione per pregiudicare all’immunità di quel loco, con voler tagliar ne' boschi a lor modo; affidati contra voglia del Commendatore; voler che quel Loco si nomini ne' contratti per Territorio di Monte Fiascone [...] con minacciar fino, che vi s’anderà col foco ». Insomma quegli uomini erano pronti a tutto pur di avere il diritto di usare a piacimento i terreni confinanti con il loro territorio. Chissà, forse per l’assenza del “padrone” Card. Alessandro o per l’antipatia che i cittadini di Montefiascone provavano nei confronti del “forestiero” Annibal Caro, decisero di spadroneggiare a loro piacimento arrivando persino a minacciare di dar fuoco ai boschi del Cardinale.
Alessandro quindi cerca di trovare l’appoggio del Vicelegato: « [...] chiamando a sé gli officiali o deputati della Comunità », ma anche - se necessario - di esporre la questione alle autorità di Roma: « [...] e non bastando li buoni offici suoi, né manco l’autorità, in caso che volessero procedere per via di Roma, mi sarà caro che faccia loro un amorevol protesto ».
Lascia quindi istruzioni all’Arcivescovo di tenerlo al corrente delle vicende future: « E la prego a volermi dar ragguaglio di tutto che segue sopra di ciò, ed anco consiglio di quanto le par ch’io debba fare per reprimer l’insolenza loro in questo caso ».
Il Gran Cardinale era ben deciso a mettere un severo freno a queste prepotenze anche scrivendo alla Comunità stessa di Montefiascone, lo stesso giorno della lettera precedente: « Io son certo che sapete meglio di me i privilegi e l’immunità della Commenda San Giovanni; e come per la distinzion de' confini [...]. è del tutto appartata dal territorio e da ogni vostro affare [...] ». Prosegue dicendo che intende: « [...] con questa d’ammonirvi amorevolmente, che vi asteniate di molestrala. Quando no voglio che sappiate che la Commenda è stata conferita al Commendatore Caro da me, e che ci ho sopra il regresso dopo di lui: e che per esser stata di Papa Paolo, santa memoria, e de' miei tanto tempo, quanto sapete, io la reputo mia più che mai ».
L’ammonizione che il Card. Alessandro rivolge “amorevolmente” ai montefiasconesi fa riflettere circa la notevole preoccupazione che in lui suscitavano queste pretese. Ed infatti fu solo l’inizio di un lungo conflitto tra il Cardinale e la Comunità di Montefiascone che si trascinò per ben sette anni. O per lo meno durante questo tempo la faccenda non trovò soluzione, tant’è che il 5 ottobre del 1564 Annibal Caro stesso scriveva da Roma al Card. Ranuccio Farnese (1530-1565) - fratello di Alessandro juniore - forse perché il “Gran Cardinale” in quel momento non era in grado di aiutarlo.
Esordisce quindi il Caro: « Dio sa con che cuore scrivo questa a V.S Illustrissima, dubitando di fastidirla [...] gli uomini di Montefiascone [...] mostrano volerle dare un grande assalto per conto mio: e son venuti a tale, che alla scoperta fanno professione di far violenza alle cose della Commenda [...] ». Prosegue poi dicendo che questi uomini hanno richiesto udienza al Card. Sant’Angelo (Ranuccio) per assicurarsi giustificazioni dei loro comportamenti anche attraverso bugie e calunnie: « [...] della causa avanti V.S. Illustrissima? So che co’ loro conserti s’ingegneranno d’occultarle, e di calunniar a rincontro noi (vale a dire lo stesso Annibal Caro e suo fratello che viveva alla Commenda), come hanno fatto sempre [...] e quando ce ne volemo difendere, bravano, con dir che quello è lor territorio [...] come fossero padroni ancor della roba. Molti giorni sono, mi ruppero la caccia [...]. ma ci sono voluti andar senza licenza e nel ritorno, a bello studio, hanno ammessi i cani alle mie capre, e fattone uccidere non so che una [...] insomma ne vogliono essere i padroni essi. E perché non lo volemo consentire, ci fanno di queste avanie ».
Gli uomini di Montefiascone avevano quindi cercato in tutti i modi di esercitare la loro prepotenza senza preoccuparsi delle conseguenze; non solo, avevano anche chiesto udienza al Card. Ranuccio Farnese, forse ritenendo che questi potesse in qualche modo difenderli dalle accuse che rivolgeva loro Annibal Caro, il quale però avendo il fratello che viveva nella zona si era visto uccidere alcune capre dai cani aizzati dai montefiasconesi. Ovviamente la licenza di caccia non era stata loro concessa, ma non per questo rinunciarono alle incursioni nei boschi della Commenda.
Conclude il Caro: « M’è parso di far saper queste cose a V.S. Reverendissima, perché so che non le sa. Del resto me ne rimetto a lei, perché basta ch’ella mi faccia intendere come ho da governarmi con loro [...] Se quelle genti faranno istanza o querela contro di noi, mio fratello è di là: e se sarà chiamato, di tutto renderà conto. In ogni caso la supplico a provvedere ai disordini che ne possono avvenire, se non per conto mio, almeno per sua bontà e per correzione de' suoi sudditi ».
Sarà riuscito il Card. Ranuccio a sedare gli animi dei suoi sudditi ed il Caro a ricevere giustizia? Purtroppo non lo sappiamo.
Ranuccio Farnese fratello del Gran Cardinale Alessandro juniore
Nota: Tutte le lettere citate nel testo sono tratte da: “Delle lettere del Commendatore Annibal Caro”, scritte a nome del Card. Alessandro Farnese, volume terzo, Ed. Società Tipografica de’ Classici Italiani, Milano, 1807.
Patrizia Rosini
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